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Forleo Antonio POW 281786 - Ricordi di un Prigioniero

 

ANTONIO FORLEO POW 281786

Genazzano, Brindisi 1914 – Johannesburg, Sud Africa 1991

 

RICORDI DI UN PRIGIONIERO

Come tanti prigionieri di Zonderwater, papà mio ne parlava poco. Da bambino mi ricordo che si andava al cimitero per la messa ai caduti, e notavo che papà aveva sempre le lacrime agli occhi; Però ne capivo poco. Con il passare del tempo, la vita di papà si rallentò. Essendo stato sempre un gran lavoratore era bello vederlo a casa la domenica dopo pranzo con la sua Olivetti portatile, battere con un dito, un foglio che non finiva mai. Io, già adulto e più curioso, li chiedevo, “papà, che fai?” Non mi rispondeva. Papà ci lasciò due anni dopo che scrisse queste sue memorie. Era il suo sfogo e colse l'occasione di spedirlo al suo giornale preferito, La Voce, un giornale per l'Italiani del Sud Africa.

Franco Forleo

La Voce 15 giugno 1989

Gent.ma Direzione "la Voce",

invio il presente assegno, con quale desidero rinnovare il mio abbonamento al nostro tanto caro giornale La Voce che ha scadenza durante questo mese. Al nostro giornale ho voluto usare l'aggettivo caro, naturalmente e sottinteso, anzi, tutto il contrario, caro nel senso di affezione, caro degno di essere amato perché é scritto in italiano e l'italiano e la mia lingua della quale sono assai orgoglioso, e la nostra lingua di tutta la Comunità Italiana in Sud Africa, la lingua che fu parlata dai nostri antenati e quella che io in quarant'otto anni di Sud Africa, quasi mezzo secolo, per non dire tutta una vita, l'ho portata sempre ai più alti fastigi, non mi son fermato, continuo ancora per me e come un doveroso compito. Lo scrivente di queste righe è un ex prigioniero di guerra, al quale Don Napoletano, Don Abene, ufficiali cappellani dettero il privilegio di insegnare ad un gruppo di cinquanta suoi commilitoni illetterati. Adesso, dico ai miei alunni, presi dal niente, dovetti per primo insegnare loro come tenere la matita tra le dita, li portai fino alla terza elementare; quello fu troppo per loro e per me. Tra di loro il più giovane aveva l'età non meno di quarant'anni. Io, insegnante ero il più giovane di tutta la classe. La mia intenzione era quello, ma come potevo, era assolutamente impossibile, mancava il più necessario, mancava la mente calma, come si poteva prestare attenzione allo studio quando ci arrivarono cattive notizie della guerra, quando di tanto in tanto ci arrivavano lettere spediteci da quattro cinque mesi con triste notizie. Una lettera portava la morte di un figlio sul fronte della Grecia, l'altra lettera la perdita della madre, un'altra lettera, magari la moglie lo aveva tradito e cosi tante e tante altre lettere. Li vedevo piangere, insieme a loro piangevo anch'io, vi era motivo. Eravamo cinquantuno fratelli. Tutti di loro mi hanno voluto bene e forse tanti di loro me ne vogliono ancora in vita. Di ognuno di loro potrei scrivere una storia. Tutti mi sono stati riconoscenti. Quasi tutti i loro nomi ricordo ancora.

Un pomeriggio mentre ero in tenda, correggevo i loro compiti, quando mi vidi entrare Nicola Caruso, (abruzzese) con una lettera nelle mani e con le lacrime agli occhi dalla commozione, mi disse: maestro é la prima volta che leggo una lettera della mia famiglia, lo devo a voi, grazie tante volte di tutto cuore. Un giorno avevamo appena finito una prova d'esame e il giorno dopo dovevano venire ufficiali cappellani e medici per gli esami finali, mentre tutti uscivano, io ero alla porta per salutarli uno per uno, arrivò alla porta Vittorio Brento, un uomo molto serio e che aveva tanta volontà di imparare. Quando arrivò vicino me, mi si gettò addossò e piangendo mi disse; figlio mio ti ringrazio assai, Dio ti possa sempre benedire per tutto il resto della vita, hai fatto a me quello che i miei figli non hanno fatto in tanti anni. Invece poi Polese (piemontese) era l'idolo della classe, aveva bellissime espressioni, era quello che faceva ridere tutti anche se non si aveva voglia. Il suo posto era quello più vicino alla lavagna perché era un po’ miope. Continuava sempre a dirmi; maestro vi ringrazio tanto per la pazienza che avete specialmente per me che ho una testa che neppure la iena la mangerebbe. Non avrei mai creduto di affezionami cosi tanto anche con gente estranea. Al momento di lasciarci, tutti mi dettero i loro indirizzi. La prigionia ancora non era finita, eravamo spesso soggetti a spostamenti, riviste una dopo l'altra. Senza neppure accorgermi perdetti indirizzi e i miei affezionati amici. Amici si, perché alla fine non eravamo più maestro e alunni.

Come ho detto prima, io sono un ex prigioniero di guerra del 7mo blocco 27mo campo. Comandante del blocco maresciallo di Marina Caracciolo, un fratello per tutti i prigionieri. Fu al settimo blocco costruita la scuola Duca d'Aosta. Così io ebbi quel piacere, direi meglio, l'onore di insegnare in quella scuola. Neanche a farlo apposta, io conobbi il Duca, prima della guerra, parlo del 1939. lo conobbi a Massaua, sembra impossibile, lo conobbi sul trampolino della piscina dell'albergo dove lavoravo io prima della guerra. La piscina era stata finita. Il Duca era all'albergo di passaggio. Arrivò a Massaua con la nave Tevere, doveva proseguire per Addis Abeba, dovette fermarsi all'albergo in attesa che si formasse l'autocolonna. Il direttore dell'albergo approfittando della buona occasione, invitò il Duca di inaugurare la piscina. Io ero già sul trampolino quando arrivò il Duca. Passai la forbice a lui e come è giusto usai il titolo Altezza, lui mi rispose; “un metro e novanta due centimetri”, tagliò il nastro tricolore e via il primo tuffo in quella piscina, il secondo fu il mio. Mi vidi ancora col Duca ad Asmara quando fui richiamato. Iniziò la guerra, io ero del genio, radiotelegrafista, fui aggregato alla P.A.I. (Polizia African Italiana). Al principio sembrava che dovesse andare tutto bene. Occupammo Cassala, qui m'incontrai con un mio paesano, Ungaro, il quale, risiedeva, oggi non e più con noi, in Roodeport. Mi trovai insieme al Duca D'Aosta in una casa privata. Mi sfuggì una frase nel mio dialetto e lui mi guardò e mi disse: non dirmi che sei Brindisino. Io risposi: ma si che lo sono. Dopo l'occupazione di Cassala, stavamo andando per occupare Proma, altra località nord del Sudan, ma fummo respinti sul nostro fronte Eritreo. Inquadrate di nuovo le nostre forze, io, con la mia stazione radio, con i cofani pile e cofani antenna e attrezzi, caricati sui muli che di loro si vedevano soltanto le ossa, fui assegnato a disposizione del colonnello Lorenzini, mi trema la mano nel scrivere il suo nome, come si fa a trattenere le lacrime di fronte a fatti come questi? Eravamo a Tesseue` una località piena di paludi e non favorevole a fare fronte alle forze contrarie. Dovemmo spostarci su Agordat, poi Basentu fino a Keren. Il colonnello Lorenzini fu il comandante di quel fronte dove rimanemmo per poco meno di due mesi. Le battaglie si susseguivano, l'artiglieria nemica mirava spesso alla mia antenna, eravamo li per giocare l'ultima carta. Durante il giorno molte volte il colonnello veniva da me per sapere se vi erano notizie. Tutte le volte che veniva, mi portava un gavettino di te, erano quei gavettini di alluminio del nostro esercito che poi a Zonderwater vennero mutati in porta sigarette. Diverse volte il colonnello mi disse: il nemico passerà Keren ma passerà sul mio cadavere; così fu. Quando io mi trovai a Zonderwater scrissi l'inno del prigioniero, per questo ero molto conosciuto dagli ufficiali cappellani, sono stato utile anche a loro. L'inno che io feci, il titolo che io detti era “La Canzone del Prigioniero”, invece poi, Don Napoletano mi disse: questa non é una canzone, questo deve essere l'Inno del Prigioniero. Io scrissi i versi, un maresciallo dell'Esercito, maestro di musica, lo musicò molto bene. Il verso che riferiva al colonnello era cosi: Italia bella, Italia di Mussolini, rivendica il nome dell'eroe Lorenzini che la su Keren aspetta ancor per sventolare ove cadde Il tre color. Sono certo che se il colonnello dovesse tornare, mi direbbe: hai scritto che sono stato un'eroe, anche te lo sei stato, perché hai fatto servizio anche con la febbre e tante volte senza mangiare. Keren ormai divenne un doloroso ricordo e a quanti si trovarono là tale rimase, quello sarà un perenne ricordo per tutti italiani. Così per il ricordo del Duca D'Aosta su l'Amba Alagi, l'unico rimasto dopo lo sfacelo di tutti i fronti. Insieme ad altri gruppi come tanti sperduti, che eravamo senza un gerarca che ci potesse dirigere, mi trovai ad Adi Ugri, senza la mia stazione radio, già la seconda che avevo distrutta. Arrivò la notizia che Asmara era stata occupata, Massaua era per essere occupata. Per quei pochi che eravamo, non vi era più nulla da fare. Formammo tra di noi un gruppo, forse sessanta, per andare a raggiungere il Duca ad Amba Alagi, la nostra impresa andò fallita perché fummo presi da un terribile temporale, i muli non vollero saperne più. Tornammo al punto di partenza. Trovammo Adi Ugri occupata e purtroppo ci tornammo quando la bandiera veniva ammainata e alzata quella del nemico. Qui cominciò la prigionia. Caricati su camion che fummo, ci condussero ad Asmara. Continuammo in tanti ormai, fino a Cassala dove trovammo solo sabbia. Fummo poi spostati ad Aia, poi ad Erba, tutti località sudanesi dove rimanemmo per ben sei mesi. Partimmo alla volta di Porto Sudan col dolore di aver lasciato tanti amici e compagni. Qui fummo imbarcati su di una nave, per destinazione ignota a noi tutti. Dopo si seppe che si andava in Sud Africa. Il viaggio non fu male, dopo tutto eravamo prigionieri. Arrivati a Durban, vedendo la grande città e in comparazione di tutto quello che avevamo passato nel Sudan, incominciammo a cambiare i volti, non ci sembrava vero. Dissi tra di me, forse qui ci riuscirò a portare a casa pelle e ossa, penserà poi mia madre a gonfiarmi. Dopo Durban fu la volta di Zonderwater.

Preg.mo Sig. Porciani, non so proprio cosa penserà di me dopo tutto questo scritto che poi è solo una sintesi. Forse dirà: tutto questo scritto solo per rinnovare l'abbonamento. Era da anni che volevo far questo, lo volevo fare per due motivi, mi creda, son contento di essere arrivato e lo sarò ancora senza dubbio in seguito. Lo scopo di questo scritto non è per essere pubblicato, anzi La prego, il giornale non avrebbe spazio sufficiente. E poi a quanti potrebbe interessare?  Ho voluto semplicemente far conoscere che tra i pochi ex prigionieri di guerra rimasti in Sud Africa, forse io sono quello che potrei fornire tanti tanti fatti se dovesse essere necessario.

Dei nostri morti nel cimitero di Zonderwater, io ebbi occasione, insieme ad altri, di seppellirne quattro. Sono stato amico del Capitano Maggi, molto conosciuto in Zonderwater e fuori, potrei dire molto di lui. Era della provincia di Taranto, quasi paesani. Per pochi giorni mi trovai di lavorare al cimitero di Zonderwater, facevamo il turno, ogni tanto mi piaceva uscire fuori dal campo, lo facevo per muovermi.

Antonio Forleo anni dopo con sua moglie Ida alla tomba del del Capitano Maggi

Antonio Forleo, anni dopo con sua moglie Ida, alla tomba del Capitano Maggi

Quando mi decisi di uscire fuori per lavorare, dopo che il mio dovere l'avevo portato a termine, lasciai Zonderwater alla volta di Pietermaritzburg. Un giorno mentre passeggiavo per il campo, passai vicino al cancello, vidi un prigioniero, aveva personalità, lui guardava me, io guardavo lui, sembrava che avessimo un gran voglia di conoscerci. Ci sorridemmo, ci avvicinammo e cominciammo a parlare, mi disse che era friulano, io risposi; se pieghiamo la carta geografica, siamo quasi paesani. Ci scambiammo i nomi. Lui si chiamava Duilio, dopo seppi De Franceschi. Mi disse che era lì per aspettare un suo paesano che doveva passare. Quell'attesa poi fu quella che decise il futuro di Duilio. Poi seguì anche il mio. Da allora sono passati quarantadue anni, sembra che sia stato ieri. In quel campo era in costruzione la chiesa, così anche lì volli metterci il naso, il padre incaricato era della provincia di Foggia. La notte di Natale insieme ad altri andai in chiesa per la funzione.

Il padre ci mortificò  che non sapevamo cantare, solo Fiasconaro sapeva cantare. Lo terrò a mente. Se dovesse succedere un'altra prigionia andrò prima ad imparare a cantare. Lasciai Pietermaritzburg, mi trovai in una grande foresta chiamata Weza, fui condotto la perché fu chiesto un cuoco, io dissi di essere stato di professione, tanto nessuno mi conosceva, dovevo far da mangiare alla truppa e agli ufficiali Sudafricani. Stavo bene, del mangiare erano tutti contenti, ma dopo un bel po` dovetti tornare in campo punito. Il mio nome passò nella lista nera. Grazie ad un maggiore, fui libero di nuovo per uscire. Avvenne un miracolo, uscii di nuovo e dove poi? In un convento di suore, in località Genazzano, vicino a Tongaat sulla costa nord di Durban. Non ero muratore, non sapevo come tenere la cazzuola nelle mani. Quello che avevo era la gran voglia di lavorare e fare qualche cosa di grande. Tre grandi serbatoi per acqua in cemento, una casa che fu battezzata col mio nome, Sn Antony, ed una scuola per finire. Che non me lo dicano, anche a me, quando penso, sembra impossibile. Tutto questo è ancora là, l'entrata è libera per tutti. Solo a guardare la scuola e pensare che di mano d'opera si spese sei sterline, uno scellino al giorno, si diverrebbe matti. Questo non è il tutto, molto ma molto ancora da dire.

Ora torno di nuovo alla scuola di Zonderwater. Ripeto quello che ho detto prima. Era da anni che volevo far questo. L'ho sentito sempre come un sacro dovere.  Io non sarò mai un pezzo grosso della mia nazione, ma se dovesse succedere per un grandissimo sbaglio, come quelli che ne succedono ai tempi di oggi, la prima cosa che farei, innalzerei un monumento al Signor Nebuloni. Fu lui che costruì quella benedetta scuola. La costruì di sua spontanea volontà. Di lui io so solo che risiede a Città del Capo e niente di più. A Zonderwater eravamo amici. Lavorò notte e giorno, dove andasse a procurarsi tanto materiale rimase un mistero. La scuola era davvero bella, tutta in muratura, situata in un piazzale, al centro del quale, il monumento al Duca. Il Signor Nebuloni merita essere elogiato. A Cesare quel che è di Cesare. Il più dell’assegno che invio insieme alla quota per abbonamento è per far contento me stesso come lo sono tanti sostenitori. Con certezza lo sarebbero anche coloro che hanno debole la memoria. Infinitamente ringrazio tutti la Direzione. Cordialmente saluto

A. Forleo

Caro Signor Forleo,

ho pubblicato la sua lunga lettera, perché mi è sembrata una pagina di storia che molti hanno vissuto, sacrificando anni di vita per un ideale. Gli ideali non esistono più. Rimane la storia, che purtroppo non insegna nulla a nessuno. Le guerre inutili si ripetono ed i ricordi si accumulano. E diventano belli, anche i più tristi. Grazie per quello che fece, per il suo sacrificio, per la sua dedizione, per il suo amor di Patria. Ne abbiamo ancora bisogno.

 

POW (Prisoner of War) A Short Story - scritto da Franco Forleo figlio di Antonio Forleo POW 51423

http://www.francoforleo.co.za/Zonderwater.html

 

 

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