Memorie del marinaio ENRICO VINCI - P.O.W.
(trascritta dal figlio Giuseppe Vinci)
MARINAI D'ITALIA
Marzo 1941, Real incrociatore “Pola”, il sole era appoggiato sulle onde e tra poco scendeva nel mare immenso, con spume bianche che il vento tormentava. Finalmente a bordo avevamo un po’ di tregua dopo i ripetuti attacchi aerei della mattina. Il mio posto di combattimento era nella centralina di tiro della torretta a sinistra con il Secondo Capo Arcangeli. Scrutavo gli ultimi lampi di luce e l'orizzonte profondo.
Avevamo passato l'intera giornata a largo delle coste greche a caccia della Mediterranean Fleet, squadra navale inglese. Scaramucce, attacchi aerei ed un inseguimento di alcune loro navi.
Scortavamo la nostra Ammiraglia “Vittorio Veneto” colpita da un siluro inglese. La V.V. navigava lenta e con un andatura barcollante avente in pancia 3000 tonn, di acqua, procurata da una falla nei locali stiva e prora. Sembrava che danzasse sull'acqua. Mastodontica e regale una vecchia signora sofferente agli arti. Eravamo gli ultimi di una formazione che comprendeva gli Incrociatori pesanti “Fiume e Zara e varie altre navi da guerra.
I miei pensieri andavano lontano. Napoli, i miei genitori che combattevano come me giorno dopo giorno la battaglia per la vita. I miei amici, la mia vita. Di tanto in tanto mi rilassavo a fantasticare con delle figure modellate dalle onde e dal vento. Ebbi anche tempo di pensare alla Scuola CEMM sul lungomare a oriente della Maddalena, quando un fastidioso ronzio mutò quella nostalgica visione.
Dapprima era un puntino poi divenne una figura sempre più chiara. Oddio!!! ci risiamo. Aereosiluranti a dirittaaaaaaaaaaa. Gridai con tutta la rabbia che avevo in pancia. Immediatamente si alzarono le bocche di fuoco dalla ghiglia ruotando a 90 gradi . Le mitragliatrici iniziarono a cantare la nenia metallica e fatale rivolta ai pericolosissimi swordfish inglesi. “Fuoco” bersaglio mancato accipicchia. “Fuoco” centrato e vaiiiii!!!!!!
Attenzione fiancata dx . Un altro dannato calabrone che veniva dietro la nostra poppa puntandoci giusto alla pancia della nave. “Ha sganciato” figlio di puttana. Sparammo con tutto quello che avevamo . Colpito fatalmente l'aereo s'inabbissò verso la prua e cosi mentre provavo un senso di gioia per lo scampato pericolo un boato fece tremare tutta la nave. Si sentirono urla e grida, imprecazioni e suppliche. Fuoco e fiamme divampavano, portelli divelti e purtroppo molti rottami avevano cambiato colore da grigio scuro erano diventati rosso porpora, colorati dal sangue di giovani marinai.
Il siluro aveva aperto una grossa falla sul fianco destro le macchine e parecchie caldaie erano allagate. Oltre cento marinai morti e feriti, quest'ultimi furono trasportati a prua dove ricevevano le prime approssimative cure.
La nave era ferma nel buio della notte nera come la pece. Dalla radio ci chiedevano le condizioni della nave. Il Cte. Rispose che eravamo fermi impossibilitati alla manovra ma galleggianti. E fu in quel momento che l'Amm. Iachino decise d'inviare in nostro soccorso gli incrociatori Zara e Fiume oltre ai cacciatorpediniere Alfieri e Carducci, per effettuare il rimorchio a traino fino al porto di Taranto.
Forse riusciamo a tornare a casa- pensai, ma era una visione molto ottimistica di quello che stava per accadere.
Quando la squadra di soccorso arrivo a qualche miglio di distanza, il cielo venne squarciato da un potentissimo fascio di luce proveniente dal CT Greyhound, che navigava in testa alla formazione britannica. La luce si stagliò fredda e minacciosa contro l'Inc. Fiume. Credo che agli inglesi sembrava di toccare le nostre navi anche se erano a 2700 mt di distanza.
In quel preciso momento si scatenò l'inferno.
Lo Zara ed il Fiume non s'accorsero nemmeno delle bordate che arrivavano facendo scoppiare e bruciare le navi. Il Carducci tentò di rispondere al fuoco ma era una guerra impari. La potenza micidiale delle loro navi distrusse ogni residua resistenza.
Forti esplosioni e lampi di fuoco inghiottirono migliaia di giovani vite.
Il macello di Matapan era durato 180 secondi.
In 2035 marinai quella notte persero la vita. Seguì un lungo silenzio, il fumo del fuoco dei cannoni avvolgeva tutto lo specchio d'acqua. Guardavamo sbigottiti ed impotenti i detriti galleggianti e la distesa di corpi galleggianti che ci veniva incontro. Dio mio!!! esclamai.
Finita la battaglia un altra strage stava iniziando. I CT inglesi incrociavano sul teatro di battaglia e con le loro eliche aggiungevano morte su morte maciullando chi era in mare.
Alle 1.05 accostò il CT Jervis , si avvicinò fino a toccare bordo contro bordo, ma il mare, anche se non proprio agitato, era tuttavia mosso da una lunga onda di scirocco. Vennero lanciate cime da una nave all'altra e si potè sistemare anche una passarella che sarebbe servita a trasbordare i feriti. Alle 3,40 il Jervis si stacco dal Pola, dopo aver imbarcato 257 italiani e prima di allontanarsi lanciò un siluro contro l'incrociatore. Segui un altro lancio effettuato dal Nubian. Dopo un po’ il Pola incominciò a inabissarsi.
LA PRIGIONIA
Al mattino inoltrato incominciammo ad intravedere terra, era il porto di Alessandria d'Egitto. Eravamo tutti ansiosi di sbarcare, di metterci alle spalle quell'orrenda notte. Qui inizio la mia via Crucis da prigioniero. Appena sbarcammo una compagnia di soldati australiani ci faceva da scorta. Incominciarono ad offenderci giusto per scaricarsi la tensione che li attanagliava. Forse era il loro primo contatto con il “nemico”. Ma che nemico poi, se eravamo stanchi, fracidi e demoliti psicologicamente. Inerti ad ogni reazione. Avevamo ancora la morte negli occhi ed i nostri pensieri non erano bellicosi ma solo fatti di silenzio ed amarezza.
Uno di loro si staccò e mi lanciò un occhiata di astio contornata d' alcune offese gratuite. Io ressi il suo attacco di odio, con uno sguardo tranquillo, sereno, di chi non aveva più nessuna paura dopo quella notte.
Sconfitto, il soldato australiano, s'infuriò e mi colpi con il calcio del fucile. Caddi violentemente al suolo. Alcuni mie camerati subito accorsero per sollevarmi. Li respinsi con fermezza e riguardai il soldato australiano, dicendogli “Non ha senso quello che fai e non tremo affatto”. Un Ufficiale assistette alla scena e con uno spintone allontanò il soldato spostandolo di alcuni metri dalla fila dei prigionieri. Avanzò lentamente verso di me mi tese una mano, certamente aveva capito quel gesto di inutile violenza del suo sottoposto. Gli dissi thank you, l'unica parola inglese che all'epoca conoscevo.
Dopo alcune peripezie inenarrabili, fui trasferito in un campo di concentramento di Geneifa- Ismailia, precisamente il campo 8. Ci sono stato alcuni mesi in condizioni bestiali, completamente nudo (mi coprivo con uno straccio) affamato, assetato e pieno di pidocchi. Qui purtroppo oltre alle sofferenza dovemmo scontrarci anche con la mafia dei collaborazionisti. Alcuni di loro amministrava i pochi viveri del campo oltre l'acqua e solo se rinnegavi i tuoi valori di patriota e di combattente potevi ricevere con normalità razioni di acqua e pane. In caso contrario eri costretto a filtrarti l'acqua dal fango e dai vermi e mangiare del marcio raffermo se non con muffa di alcuni giorni. Il capo di questa banda era un Maresciallo gran ruffiano e spia inglese. Mi chiamò dalla fila delle gamelle e disse “ Vieni qui. Ascoltami qui chi comanda sono io. Se vuoi vivere bene, fumare e ricevere notizie da casa non devi far altro che collaborare con noi e vedrai che ti troverai bene. Domandai “ Cosa significa collaborare?? “ Rispose: Nulla di tanto faticoso. Potresti lavorare all'arsenale ed avere le orecchie ben aperte. . Ah ecco!!! Nulla di tanto difficile per un verme vero????
Lo sguardo del maresciallo si fece rude, i suoi occhi brillavano di livore, subito fui assalito da 5 o 6 suoi scagnozzi che mi riempirono di botte procurandomi varie ferite ed ecchimosi al volto. Scoppiò una rivolta subito sedata dai soldati neozelandesi. marinai contro marinai, ma a rimetterci fummo uno sparuto gruppo che si erano ribellati a quella sorta di Mafia da campo.
Porto una testimonianza di un carrista proveniente da Tobruk:
Ci avvisano che a mezzogiorno ci danno un piatto di minestra che io non posso prendere perchè non ho alcun recipiente per mettere dentro la razione di spettanza.
Mi do da fare, a trovare un recipiente adatto all'uso chiedendo nelle tende dove alloggiano altri prigionieri che erano già la prima del mio arrivo; ho visto infatti, dentro una tenda, dei barattoli vuoti, ho chiesto di chi fossero e se potessi averne uno per poter mangiare qualcosa. Mi rispose il proprietario e mi dissi: I barattoli sono miei, quanto mi dai per un barattolo? Risposi: Non ho niente, se mi dai il barattolo mangio qualcosa, se non me lo dai, sono digiuno da molti giorni (20 giorni circa) rimango anche oggi senza mangiare fino a quando non troverò un barattolo.
Non mi sgomento e nemmeno impreco. Ho addosso un pastrano sporco e vecchio, quando ci inquadrano per avere il rancio, arrivo davanti alla distribuzione, e come se nulla fosse, dal lembo del mio pastrano faccio mettere la mia razione di minestra; il liquido cadde immediatamente, rimasero due fili di pasta che ho mangiato per la prima volta dopo tanti giorni.
Con quel gesto, ho sorpreso tutti, la persona che mi aveva negato il barattolo é stata rimproverata dai suoi commilitoni di tenda, il giorno dopo, sono riuscito a trovare un barattolo che ho usato nei giorni che seguirono.
Nel Campo di Geneifa c'é acqua e ci danno da mangiare quanto basta per sopravvivere, dopo qualche giorno, sono riuscito a distruggere i parassiti che regnavano nella mia maglia "l'unica che possiedo" a forza di metterla a bollire per più di una volta in una latta che ci avevano messa appositamente a, disposizione per tale scopo.
La stessa notte fummo condotti a Suez, durante il tragitto che facemmo a piedi per recarci al porto per imbarcare la popolazione locale si dimostro molto ostile. Dai balconi ci lanciarono ogni sorta di oggetti, pietre, bottiglie, sputi, minacce e maledizioni . Maledetta guerra!!! Quanto ancora dovremmo penare??? Che dovremmo ancora subire. In questo campo, uno spazio recintato da filo spinato e con poche tende dove ripararsi le guardie e prigionieri erano in condizioni disastrose. Sia gli uni che gli altri vivevano come bestie. In una landa desolata, solo sabbia e qualche tenda x ripararsi. Passarono altri 20 giorni e ripartimmo di nuovo destinazione Sud Africa. L'inizio del vero calvario.
ZONDERWATER-CULLINAN
Dopo 25 giorni di navigazione arrivammo a Durban (Sud Africa) ero conciato sempre peggio, avevo la pelle annerita, fisicamente indebolito e pochissimi stracci come vestiti. Un ufficiale sudafricano mosso a compassione mi procurò un paio di pantaloncini corti di tela e delle vecchie scarpe, di cui una italiana e l'altra sudafricana.
Sbarcati a Durban, fui trasferito nella zona del Transvaal (Zonderwater) cosicchè fui uno dei primi che popolò il deserto del Transvaal.
In quel campo incominciai ad accusare i primi malanni, oramai il mio stomaco era in perenne conflitto con il resto del mio corpo (penso che ciò era dovuto al granone bollito e condito con l'olio di cotone che ci propinavano come vitto) oltre ad avere seri problemi reumatici.
Mi rivolsi diverse volte all'Ufficiale Medico Dott. Brancaccio, il quale non poteva fare altro che darmi dei buoni consigli in mancanza di qualsiasi medicinale o strumentazioni diagnostiche. Nei primi mesi del 1944, incominciai ad accusare anche una specie di mania di persecuzione, la lunga prigionia iniziava a debellare il mio sistema di autocontrollo. Il Capo Santoro vedendomi in quelle condizioni mi consigliò di andare fuori a lavorare, affinchè potessi distrarmi ed avere un alimentazione variegata. Accettai le sue premure ed andai a lavorare in un deposito metalli a pochi km da Pretoria, eravamo diciotto italiani. Le condizioni lavorative rasentavano la schiavitù, la nostra condizione di prigionieri di guerra autorizzava i sudafricani a non aver nessun rispetto della nostra dignità di uomini. Un giorno stanchi delle loro angherie quotidiane, rimanemmo al campo in segno di protesta. Meglio essere prigionieri che schiavi.
Nel pomeriggio, un Ufficiale e diversi soldati armati irruppero nella nostra baracca, offendendoci e minacciandoci . Ma più che altro erano le offese alla nostra dignità a ferirci. I valori etici o morali per molti sono carta straccia, ma per me sono stati sempre primari . Non sopportai le offese come italiano e reagì disarmando l'Ufficiale. Gli assestai un calcio allo basso ventre e disarcionato gli dissi: Adesso, senza fucile, fammi vedere quanto vali!!!
Alla mia reazione, il drappello di soldati mi assali, disarmandomi.
Fui riempito di botte, e successivamente mi misero in cella.
Fui giudicato da una Corte marziale e condannato a 28 giorni di lavori forzati e bagno penale.
CASETTA ROSSA
La giornata tipica del prigioniero nella famosa CASETTA ROSSA, luogo di tortura più che di punizione era scandita da una doccia gelata all'alba. Ricordo che l'acqua veniva giù con tanta violenza che dava l'impressione che bucasse la pelle. Eravamo nel mese di Maggio, nel pieno inverno Sudafricano. Il giorno seguente cercai di bagnarmi solo il viso e pochi parti del corpo, ma le sentinelle di guardia per dispetto mi fecero rimanere sotto la doccia per oltre tre minuti. Sentivo il mio corpo gelarsi, gli arti tremare , ma la rabbia e la forza di reagire provocarono all'interno del mio corpo un incendio che mi isolò completamente dal gelo. La mente spaziava in altri luoghi e come se fossi stato sotto una cascata di ghiaccio ma al caldo della mia città e della mia Patria. Fottetevi !!!!, Potete avere il potere sul mio corpo ma non sulla mia mente. Quando smisero di tenermi sotto quell'acqua, avrei creduto di morire. Ero in ipotermia. Furono momenti drammatici.
Nudo e bagnato ritornai in cella, attraversando il cortile della prigione. Chi aveva qualche straccio si asciugava alla meglio e chi non aveva nulla si infilava subito le braghe e la giacca da prigioniero. Sulla mia giacca era segnato il simbolo della morte. Era un tondo bianco, che in caso di fuga dal campo la sentinella sarebbe stata facilitata a sparare al cuore.
Un giorno scopri il mio nuovo volto. Passando per la baracca dei soldati mi guardai in uno specchio e vidi il mio viso con una folta barba. Al campo era vietato radersi, forse pensavano che un rasoio poteva essere un arma impropria. Credo che con il senno del poi non avevano sbagliato come valutazione, l'avrei usato senz'altro per difendermi oppure evadere da quell'inferno. Dopo la doccia e le pulizie del bugliolo, venivamo tutti radunati nel cortile, una volta fuori dalle celle bisognava continuamente muovere i piedi, e non parlare con gli altri prigionieri. Guai a trasgredire a questi ordini, c'era subito un kapò che te li ricordava con una frustata. Venivamo contati e subito dopo distribuivano un secchiello di acqua sporca che con molta fantasia ed immaginazione chiamavano caffè. Si ricominciava con la corsa , lavori di spostamento massi, pulizia del campo, doccia gelata. Il rancio. Non so se definire rancio una porzione di pane nero con della pappa di grano duro. Oramai ero dimagrato di 28 chili in quell'inferno. Fui molto più fortunato di alcuni miei compagni di sventura che ci rimisero la pelle. Ogni giorno c'erano delle giovani vite che volavano in cielo. Corpi straziati dalle fatiche, dalla fame, e dalle angherie che dovevamo subire. Mi sono chiesto molte volte, il perchè i Sudafricani avevano tanto livore nei nostri confronti. Io nemmeno conoscevo quella nazione e ne il suo popolo. Cosa vi ho fatto di male? Perchè tanta violenza? Non avendo risposta , rafforzai la mia volontà di vivere e la voglia di rispettare me stesso , le mie convinzioni , il mio essere italiano, fiero e superiore. Non sentivo più le frustate ed il dolore mi scivolava addosso senza accorgermene.
All'imbrunire venivamo di nuovo rinchiusi nelle celle al buio. Ogni cella era occupata da tre prigionieri, con il divieto assoluto di parlare tra di noi. In quel periodo sviluppai un linguaggio fatto di segni per comunicare con i miei compagni. Eravamo sempre attenti ad evitare qualsiasi ritorsione. Come cuscino usavamo stracci e scarpe. La notte era lunga ma era il mio momento più dolce. Con la mente ritornavo a casa, in Italia, dalla mia famiglia, dagli amici e nella mia terra. Mi isolavo completamente da quella terra che nulla mi apparteneva.
Arrivai finalmente al 28 giorno di prigione punitiva, oramai ero un catorcio malfermo, debilitato e con segni di frustate in tutto il corpo.
All'uscita dal campo fui trasportato in ospedale per alcuni giorni, qualche medico mi dava per spacciato viste le condizioni fisiche. Avevo perso circa 28 chili di peso. La mia arma segreta era la mia forza di volontà dura come l'acciaio che cingeva le nostre navi.
Ritornai al block 9 campo punitivo dove passai un altro anno.
NOTIZIE SULLA CASETTA ROSSA
Testimonianza di: Soldato del Reggimento Artiglieria Celere.
La politica utilizzata dagli Ufficiali del campo si può semplificare in quella del bastone e della carota. Il Magg. Blumberg ad esempio era soprannominato dai nostri militari “comandante Febbraio” per l'abitudine di comminare abitualmente 28 giorni di segregazione nella “Casetta Rossa”- edificio fatto in mattoni rossi- totalmente al buio, senza pavimento, ossia una prigione nella prigione in cui il recluso viveva in completo isolamento a pane (scarso) ed acqua (una volta al giorno). Non vi erano servizi igienici ed il fetore era nauseabondo. Difficilmente usciva qualcuno vivo da quella cella. Erano 28 giorni strazianti con una sfida alla vita.
Finalmente arrivò un ordine di trasferimento per l'Inghilterra. Mi sottoposero ad una serie di vaccinazioni, vaiolo, tifo e colera e fu partenza dall'inferno.
Tre giorni di viaggio nelle sterminate savane e piste desertiche, arrivammo a Citta del Capo. Mi senti rinascere quando rividi il mare. Di li aveva inizio la mia sofferenza e da li sarebbe finita. Sentivo i miei sogni divenire realtà. Imbarcammo sul piroscafo francese “Doctor Pasteur”, ci ammucchiarono tutti nella stiva di prua, addossati l'uno all'altro come bestie, la luce era tagliata dal filo spinato sulle scale di sentina di accesso alla stiva, la mancanza d'aria, la sporcizia ed il fetore fu la causa di altre morti tra i miei compagni. La situazione migliorò quando incominciammo a navigare in atlantico, ricevendo un po’ più d'aria, acqua e con la fortuna di un mare più tranquillo.
Nota: Il piroscafo “Doctor Pasteur” era una nave da crociera francese, che trasportò l'oro della Banca Nazionale Francese in Canada, per metterlo in salvo dalla guerra e le razzie delle truppe naziste. Successivamente fu requisito dagli inglesi ed utilizzato per il trasporto truppe (prigionieri di guerra).
Arrivai a Liverpool nell'Agosto del 1944 e fui inviato ad un campo agricolo nel Westmorland. Il clima europeo aveva giovato alla mia salute, infatti i primi mesi mi sentii subito meglio. Ma era tutta illusione poiché dovevo ancora sperimentare le malattie di guerra ed infatti arrivò quella che definivano “bocca da trincea”, dovuta alla forte mancanza di vitamine. Ho perso vari denti, ma non me ne feci un problema, importante era di essere ancora vivo. L'importanza della vita in quel periodo era un valore molto profondo e rispettato. Era come se la mia persona si fosse divisa in due parti. Una aveva il senso d attaccamento alla sopravvivenza. L'altra era pronta a rinunciare a quel dono pur di sentirsi bene con se stesso, fiero nello spirito ancora combattivo.
Dopo questa prima esperienza lavorativa, fui assegnato ad una fonderia ad Alston (Cumberland) dove lavoravo agli alti forni. La mia prigionia era migliorata tantissimo, avevo un trattamento più umano e meno restrittivo. Era finita la guerra. L'Italia aveva firmato l'Armistizio.
Dopo sei anni di guerra e prigionia rimpatriai (via terra) dall'Inghilterra. Arrivai a Napoli dopo 4 estenuanti giorni di viaggio in treno. L'unico mio pensiero era rivolto ai miei genitori. Avevo una gran voglia di rivederli. Arrivai alla Stazione Centrale di Napoli, la città aveva ancora i segni e le ferite della guerra. Ovunque mi voltassi vedevo cumuli di pietre e voragini profonde. Chissà quante vite avevano smesso la loro esistenza pensai. La Guerra non è solo del marinaio ma anche delle famiglie. Per fortuna che il cielo era sempre meraviglioso e l'aria aveva quel calore che ogni città marinaresca possiede. Di corsa attraversai piazza Garibaldi e imboccai subito il rettifilo, a quell'ora pieno di gente che si dava da fare trasportando ogni genere di merci verso la stazione dei treni. I miei occhi erano puntati diritto verso Piazza della Borsa. Arrivato in Via Marchese Campodisola, ebbi un sussulto a vedere la mia casa. Sali le scale correndo, sull'uscio c'era la mia mamma che abbracciai come il bene più prezioso di questo mondo. Avvertito dai vicini arrivò anche mio padre. Fu un momento di intenso calore familiare. Erano vivi e già era una gioia.
Ma l'euforia presto svanì quando mi resi conto che la casa era vuota o quasi, c'era solo l'essenziale.
Mancavano i bei mobili, le lampade, la casa era quasi spoglia. Pochi utensili nella cucina, alcune sedie malridotte, e pochi abiti qua e la messi alla men peggio su di una sorta di attaccapanni.
Ma cosa è successo qui? Domandai a mio padre. Lui guardandomi con aria rassegnata mi rispose: Quando suonava la sirena degli allarmi antiaerei scappavamo nel rifugio. Ma quando noi eravamo li, bande, che si denominavano partigiani, rubavano tutto quello che trovavano nelle case, perfino i panni messi al sole ad asciugare. Hanno rubato tutto. Non bastavano le bombe, gli spari di mitraglia, la fame e la disperazione, ma abbiamo dovuto difenderci anche dagli sciacalli. Sentivo la rassegnazione e la tristezza in quelle parole. Mia madre accorgendosi del clima pesante, di scatto disse: Ma adesso tu sei qui. E la nostra famiglia è di nuovo unita. Diamoci da fare.
Marinaio Enrico Vinci ex P.O.W.