RICORDI DI UN RITORNO di Emilio Silvio Toffolon. - (scritto dall'amico di famiglia Francesco Dima)
Correva il mese di gennaio dell'anno 1941...e le feste erano appena finite!
Natale...Capodanno...anche l'Epifania era passata e per me aveva inizio un peregrinare lontano dalla mia terra e dai miei ricordi.
Già il giorno 7 gennaio lasciavo il mio niente e raggiungevo la città di Piacenza, in fanteria. Allora era del tutto diverso da oggi, lunedì 22 gennaio 2001...ora si parte da Cremona e quell'Eurostar, e non una tradotta militare, insieme con due dei miei tre figli, mi porterà in Roma per poi proseguire in aereo fino alla lontana Città del Capo, via Francoforte in Germania.
Un viaggio senza fine e tremendamente faticoso anche per un ventenne...ma i miei sono addirittura 81 gli anni! Un viaggio, il Golden Africa, meravigliosamente organizzato da Chiariva in collaborazione con African Way di Johannesburg, sognato e voluto per tutta una vita...per tornare nei luoghi dove la storia ha voluto che lasciassi ben cinque anni di un'esistenza nel pieno della vigoria fisica e degli entusiasmi giovanili...anni in cui i sogni e le speranze si frantumavano là, alla fine o all'inizio di quei reticolati che frenavano l'anima e i pensieri di noi giovani italiani arrivati fin lì, in quel mondo sconosciuto e incomprensibile, per volere di un destino a noi certamente ignoto e forse nascosto.
Si partiva ora da una città eterna assolata e tranquilla...allora invece il percorso era: Messina, Palermo e un aereo da Castelvetrano ci avrebbe trasportato sulla terra del Nord Africa per combattere una guerra persa prima di cominciare e difendere la patria lontana...la destinazione era Castel Benito nella vicina Libia.
Certo, le località, i mezzi di trasporto, ma soprattutto le emozioni erano del tutto diversi.
Fiumicino...Francoforte sul Meno in Germania non hanno nulla in comune con Timimi, Tobruk, Derna o Marsa Matruk.
Allora ero partito da solo e la mia vita...ora ho con me due figli, Luciana e Carlo Rino...avrei voluto la compagnia dell'altro figlio, Gianni e della povera Ida, la mia moglie sfortunata...non ero solo come allora...all'aeroporto di Fiumicino ho salutato mia nipote Mirella e mia sorella Silvana, accompagnata dal nipote Giorgio, l'unica forse della mia famiglia a credere ancora in un mio ritorno da quella prigionia assurda e interminabile.
Ora si partiva con la valigia piena di certezze e di speranze ormai realizzate e con il cuore gonfio di malinconia.
In quell'aereo grandioso e stracolmo della Lufthansa avrei voluto gridare a tutti la mia gioia nascosta...ma un nodo mi stringeva la gola e non mi ha permesso di manifestare a nessuno i sentimenti, sopiti e repressi da oltre cinquanta anni, in una notte senza luna e senza sonno. Nemmeno il disagio delle tante ore di volo tenevano a freno la voglia di toccare quella terra rossa e inconfondibile, che avevo conservato sempre dentro di me in ogni momento e in ogni dove...forse mi è mancata per tutta la vita...sono rimasto un malato cronico di quei ricordi e quei profumi e proprio in quegli stessi ricordi mi sono rifugiato nei momenti tristi di una lunga esistenza. Allorquando ne avevo bisogno, il Sud Africa...Pretoria...Zonderwater...mi hanno accompagnato nel cammino della vita...ma quanto mi mancavano! E così soffrivo spesso le crisi di astinenza.
Ora il sogno diventava realtà e l'aeroporto di Città del Capo era lì, quasi senza accorgermene.
Appena il tempo di superare i controlli doganali ed ecco già pronta Francesca Zardo, una signora italiana dalla visibile eleganza e raffinatezza interiori, la guida turistica che ci avrebbe accompagnato nella prima settimana fino a Port Elizabeth. Raggiungere l'albergo, il Protea Hotel President, situato sul mare e ai piedi dell'imponente montagna Lion's Head, è stato un susseguirsi di contrasti e di magnificenze: le bidonville di recente insediamento, l'imponente ospedale famoso in ogni dove per il primo trapianto cardiaco di Barnard, il centro della città con i grattacieli, le vie alla moda, il colorato quartiere malese, il Waterfront animatissimo sul mare, e poi tanto e tanto verde. Quindi i panorami mozzafiato della Table Mountain, abitata da dolcissimi animaletti di color marrone, delle dimensioni di un coniglio, chiamati dassie, e là nell'oceano senza fine la Robben Island, dove un tempo era rinchiuso Nelson Mandela.
E poi l'escursione ventosa in battello all'isola delle dolcissime foche...o alla spiaggia Boulders dove, in un incanto naturale, ci ha accolto una numerosissima colonia di pinguini...o al Capo di Buona Speranza, popolato da babbuini indifferenti e sornioni. Ma le meraviglie non erano per nulla finite, anzi...gli allevamenti di struzzi...le ridenti colline di Stellenbosh con le tenute vinicole...la lussureggiante vegetazione del Giardino Botanico...le spiagge dorate e le scogliere di Plettenberg Bay, di Hermanus, di Mossel Bay sull'oceano indiano...l'incantevole baia di Knysna...la meravigliosa Tsitsikamma Forest, dove ho sentito perfino i silenzi gridare.
E così, continuando sempre sulla Garden Route e accompagnati dalla maestosità delle montagne e dagli orizzonti sconfinati, eccoci a Port Elizabeth...con la malinconia che mi assale!
Salutiamo e ringraziamo la gentile guida per poi salire a bordo di un aereo che dopo circa un'ora toccava la pista di Durban, dove l'afa e l'umidità non fanno subito apprezzare l'energia prorompente e la giovinezza di Aurora Ovidi, graziosa fanciulla sudafricana, ma di chiare origini boere e italiane, che ci avrebbe condotto per mano nella seconda parte del viaggio. Ero frastornato...la mente in flash-back tornava là, sulla costa del Nord Africa, ad El Alamein in prima linea...il tempo segnava le ore 9 del 16 luglio 1942...il primo attacco ed eravamo già fatti prigionieri...poi seguirono i campi di Alessandria d'Egitto, di Geneifa e di Suez...e il 13 agosto la Queen Elizabeth ci inghiottì nei suoi meandri per sbarcarci, dopo due settimane di navigazione, nella città dove stasera, lunedì 29 gennaio 2001, mi trovo ospite presso l'Hotel Balmoral.
I ricordi del porto...le nostalgie di Chions, il mio paese natale...l'impossibilità di comunicare con i miei cari...scoprire un mondo lontano dalla patria e da ogni cosa. Avevo la sensazione di non tornare mai più e abbracciare i familiari...ormai ero rassegnato e avevo lasciato la mia vita in mano ad un destino senza domani che, mio malgrado, dividevo con gli altri miei coetanei.
Meno male che la stanchezza mi ha fatto sprofondare in un sonno ristoratore...così l'indomani si ripartiva alla volta dello Zululand, dove nella località di Shakaland avremmo assistito ad uno spettacolo culturale.
Allora un treno ci caricò a Pietermaritzburg con destinazione una località nei pressi di Pretoria...
No...oggi non ero più solo con la mia vita e i miei ricordi...i miei figli mi davano la forza di continuare, ma le indicazioni di Somerset, Molteno, Cookhouse mi stringevano il cuore e non potevo non ricordare i luoghi dove andavo a lavorare e assaporare un po' di libertà fuori da quei campi circondati da un reticolato alto e senza speranza. E così, sempre accompagnati da panorami incomparabili, raggiungiamo la Riserva di Hluhluwe...l'avvistamento del primo elefante...il ritmo tampureggiante e ballato da quattro ragazzotti zulu...i maestosi rinoceronti...le agili gazzelle...le colorate zebre...i bisonti lontani e pericolosi.
Quindi, dopo aver attraversato il regno dello Swatziland, essenziale e ricoperto da immense coltivazioni di canna da zucchero, entriamo nel Kruger, leggendario parco con la presenza dei Big Five, passando per la Malelane Gate.
E' questo un paradiso di colori e di emozioni: un branco impaurito di impala ci scruta insospettito...delle giraffe curiose posano per i nostri obiettivi...là, sul greto di un fiume apparentemente secco, una famigliola di elefanti cerca e trova l'acqua...ancora zebre...e lì, all'ombra di un albero e altri arbusti, un gruppo di leoni sazi e addormentati non ci degna nemmeno di uno sguardo...ma la femmina di un leopardo agile e stupenda sfida il nostro coraggio e attraversa la strada.
Dopo tanta visione cerchiamo ristoro nello Hippo Hollow Country Estate, situato sul fiume Sabie, popolato da coccodrilli famelici e tanti ippopotami, attraversando strade, villaggi coloratissimi e coltivazioni di banane, mango e ananas.
Ma il viaggio non era ancora finito!
Appena il tempo di richiudere le valigie e via di nuovo in cammino...Aurora riceveva la notizia che la femmina dei suoi cani, nella notte, aveva partorito ben otto cuccioli, vogliosi di latte e di coccole...che meravigliose creature, ma noi non le avremmo viste mai!
La regione dello Mpumalanga ci accoglie con il suo canyon da capogiro, il Blyde River Canyon, le stupende vedute di God's Window e i magnifici Bourke's Luck Potholes, dove la natura si è esaltata in tutte le sue forme.
E in questo succedersi di bellezze ancora incontaminate e lo stagliarsi nitido delle ciminiere di centrali elettriche o delle montagne di carbone appena estratto dalle miniere, ecco laggiù Pretoria...immobile, quasi deserta (è sabato pomeriggio) e con i jacaranda non ancora fioriti.
L'Hotel Court Classique, a modo suo elegante e con quattro anatre, simpatiche e chiassose, a godersi il fresco dell'acqua nei giardini ben curati, avrebbe ospitato l'ultima nostra notte in questo lembo di mondo incantato. L'indomani avremmo lasciato per sempre questo Paese dagli orizzonti liberi e sconfinati, di animali al galoppo, di alberi maestosi, e il tutto illuminato da una grande luce senza diaframmi tipica del continente africano.
La mattina del 4 febbraio cominciava per me un'altra avventura...quella agognata e sperata da sempre. In valigia non sono riuscito a chiudere i miei ricordi che proprio in quello spazio di tempo mi ritornavano alla mente con prepotenza...Da lì a poco avrei finalmente toccato da uomo libero e con i capelli bianchi quella terra rossa che mi era rimasta sempre in fondo all'anima.
Erano appena pochi i kilometri di strada, ma Zonderwater mi sembrava ancora tanto lontano!
Anche la cinepresa di Luciana non aveva voglia di filmare...sembrava che il tempo volesse, come d'incanto, fermarsi lì, prima di arrivare...ma no, ecco laggiù i cipressi...i tre archi...le tre croci...il muro di recinzione e un ingresso senza cancelli e senza reticolati. Eravamo finalmente arrivati ed io non capivo ormai più nulla...momenti intensi e incancellabili...e un pianto interiore senza lacrime mi attanagliava. In un baleno ho percorso a ritroso il film della mia vita...e mi rivedevo bambino, quando mia sorella Rosalia mi scorticava i piedi con l'acqua e sapone...le lunghe serate d'inverno nella stalla, calda e dall'odore pungente di paglia e di sterco, a sentire narrare le favole dalla nonna...quelle levatacce prima dell'alba per andare con mio padre a illuminare con una torcia il solco per il cammino nei campi dei buoi (avevo solo 10 anni)...i giochi infantili...le carezze dei più grandi che avrei voluto tutte per me, invece soffrivo in silenzio di gelosia per quelle date ai miei fratelli più piccoli Gino e Duilio...i silenzi incantati e l'odore dell'incenso delle cerimonie sacre nella chiesa di San Giorgio a Chions...la spensieratezza di un'età che ormai non c'era più...i primi turbamenti adolescenziali e i rimorsi...gli innammoramenti giovanili...l'immenso amore per la piccola Ida...poi quella guerra incomprensibile e assurda...le tende e tutta la durata della prigionia...finalmente il ritorno in patria con la nave americana Mataroa...l'arrivo a Chions alle ore 9 del giorno 11 gennaio 1947...l'abbraccio prima con mia sorella Silvana, che da mesi ogni giorno aspettava invano una mia discesa da quel pulman proveniente da Pordenone, e poi con tutti gli altri familiari...quindi il matrimonio...l'amara esperienza dell'emigrazione francese...la gioia della nascita dei tre figli...il duro e faticoso ritorno in Italia, ma non più a Chions, bensì nella padana Cremona...la tremenda e dolorosa malattia della povera Ida...la triste solitudine dorata del dopo...i frequenti viaggi per conoscere il mondo e superare gli accenni della depressione...il ritrovarsi, dopo gli anni di prigionia, con Bepi Monti di Chions, con il ravennate Manfredi Costa, con il parmense Luigi Bertolotti che in seguito sarebbe divenuto mio cognato, con Sante Zavattin, Attilio Battistetti e Gelindo Pigat anche loro di Chions, con Primo Toffolon di Panigai, o quello ormai impossibile con il napoletano Ferdinando D'Angelo del novembre scorso...e infine il ricordo dei miei amati genitori, di Duilio, Rosalia, Ernesta e Maria, che non sono più con noi.
Avrei voluto ad ogni costo fermarmi lì...non avevo la forza di varcare quell'ingresso, ma la cortese presenza di Emilio Coccia, ingegnere italiano da tempo abitante a Irene, e dedito alla ricerca spasmodica della verità storica sulla presenza di quel campo di prigionia per circa settantacinquemila soldati italiani, e zelante volontario per il mantenimento del ricordo e del cimitero con il suo museo, mi richiamava in un certo senso alla realtà e imbambolato deponevo sull'altare un mazzo di fiori, consumando con gli occhi velati di lacrime quella scritta immortale e senza tempo:
Morti in prigionia
Vinti nella carne
Invitti nello spirito
L'Italia lontana
Vi benedice in eterno
E così cominciai a vagare tra una tomba e l'altra per leggere nomi conosciuti e sfortunati. E in questo turbinio di emozioni veniva l'ora di visitare ciò che resta dei padiglioni dell'ospedale...alcuni sono rimasti intatti, altri no...tra lamiere impolverate e ferri arrugginiti l'ingegner Coccia scorge due grosse viti e le offre a noi come ricordo...ma fra erbacce e sterpaglie un girasole ha trovato la forza e la voglia di fiorire e attirare la nostra attenzione...alla fine mia figlia Luciana lo coglie per conservarlo con dovuto rispetto.
E Aurora, con un nonno paterno italiano di 88 anni, fiuta il mio imbarazzo emotivo e mi sprona a continuare la visita speciale in quella piana ormai per me disincantata. Anche la chiesetta dell'ospedale è rimasta lì, ma bisognosa di essere restaurata...più in là ci fermiamo dove un tempo era situato l'ingresso al primo blocco, ma l'altare non c'è più...l'avevamo già visto nel cimitero...laggiù, dove ormai è tutto coltivato a mais, erano situati gli altri blocchi e tanti, tanti giovani italiani come me.
Lentamente però, mio malgrado, ci allontanavamo fino all'apparire delle montagne di detriti delle miniere di diamanti a Culinan...Zonderwater ormai l'avevamo lasciato senza accorgermene...altrimenti forse sarei rimasto ancora lì, per addormentarmi in sonni lontani e profondi e per sognare ora realtà e certezze divenute ormai illusioni proprio qui...ma l'eco della voce di mio figlio Carlo Rino mi ripeteva continuamente: papà, torneremo ancora!
Ma quel cimitero e le sue tombe silenziose non li avrei voluto giammai abbandonare...avrei certamente preferito fare compagnia ai miei amici di un tempo che ormai era da decenni finito. Anche la visita della città di Pretoria, con i monumenti più illustri e gli innumerevoli parchi, che ne seguì, continuò in sordina, fino alla solare visione del Vortrekker, un mausoleo costruito come un inno alla operosità e a tutta l'epopea storica del popolo boero, magnificamente illustrate da Aurora, proprio lei figlia di madre boera e padre italiano.
Nel pomeriggio dello stesso giorno, ormai stanchi ed immalinconiti, raggiungiamo l'aeroporto di Johannesburg, da dove un jumbo della South Africa Airlines ci avrebbe riportato in Europa.
Salutiamo Aurora e con lei diamo un arrivederci o forse un addio al Sud Africa...ma porterò sempre dentro di me i profumi, gli odori e i ricordi di questo splendido Paese, dopo aver saldato così il conto con il mio passato e con il mio destino.