Quella strana Africa senza sole
Viaggio tra i campi di prigionia italiani dell’Est Africa 60 anni dopo
L’arteria stradale e ferroviaria che unisce Mombasa a Kampala non si allontana mai dall’equatore. Ce ne si accorge facilmente percorrendola, perché il sole proietta l’ombra sulla verticale, quindi sui piedi. E’ strano pensare che in posti come questi, dove l’ombra è rara, qualcuno non abbia goduto del sole. Questa è la storia che accomuna alcune migliaia di prigionieri italiani (militari e civili) catturati dalle truppe alleate durante la seconda guerra mondiale in Africa Orientale Italiana e trasferiti nei campi di prigionia britannici dell’East Africa.
Per conoscere l’inizio di questa storia, mi sono recato a Mombasa, dove il porto omonimo accolse le navi di prigionieri caricati a Massaua, Gibuti e Mogadiscio. La città non è africana, ma quasi araba o per meglio dire Omanita, stipata in un’isola tra la zona industriale e l’oceano. Ancora adesso Mombasa è il polmone pulsante del Kenya, Uganda, Rwanda e Congo. Nel suo porto i bastimenti caricano, ma soprattutto scaricano, di tutto a favore degli innumerevoli camion. Qui gli italiani rimanevano per pochi giorni o settimane, attendati sotto ai palmizi della costa o, per i più fortunati, presso i campi militari della marina inglese, in attesa del trasferimento verso l’interno. La linea ferroviaria che si allontana da Mombasa e attraversa la savana verso ovest è ancora la stessa: binario unico a scartamento ridotto. Il treno invece è quello inglese citato da Karen Blixen, con ristorante, cuccette di prima e seconda classe e posti a sedere quasi di terza. Tutto è rimasto come quaranta anni fa, con una parure di eleganza britannica, consumata tuttavia dall’ammassarsi della polvere e dall’incuria dell’amministrazione locale. La locomotiva non più a carbone dolce ma a motore diesel, impiega circa 15 ore per coprire 480 Km e raggiungere la capitale. Il treno procede piano, con forti scossoni e frequenti fermate, lasciando quindi il tempo per ammirare l’ambiente circostante costituito da una savana di cespugli bassi, dove non di rado si scorgono alcuni animali selvatici. Nairobi è annunciata dalla prateria arida e dall’intensificarsi delle baracche, nonchè da un cameriere che passa i corridoi dei vagoni picchiando ritmicamente un improvvisato xilofono. Qui il treno passeggeri ora si ferma obbligatoriamente, ma in passato poteva proseguire diretto verso l’Uganda. Alcuni prigionieri italiani destinati a Nairobi erano stanziati lì vicino alla stazione nel Camp 351, altri invece nella periferia Sud di Nairobi ad Athi River e poi disseminati per tutta la strada, ancora adesso chiamata “degli italiani” che raggiunge il confine tanzaniano a Namanga. Si riconoscono ancora le strade costruite dagli italiani, rialzate e basate su una buona massicciata di pietre, arricchite di manufatti in calcestruzzo del tutto inusuali altrove. Sono molte queste strade dallo stile semplice ma esperto, ereditato da chi aveva lavorato in Africa Orientale Italiana. Queste strade connettono ancor oggi Nairobi con altri centri periferici come Naivasha e Nyeri e tutte le zone limitrofe agli ex campi POW’s. Quanti chilometri di strade hanno costruito gli italiani in Kenia?
Ho ripreso il mio viaggio sulle strade degli italiani ripartendo da Nairobi verso Nanyuki, passando per Thika dove erano allestiti dei campi di prigionia anche per gli ascari rimasti fedeli all’Italia dopo i rovesci del fronte. Ho voluto spendere la notte a Nyeri, non lontano dal sacrario italiano per respirare quell’aria fresca e capire meglio le vicende di 60 anni fa. La zona si estende in un fertile ondulato altopiano che dai 1.500 m sale gradatamente verso il Monte Kenya, attorniato da nubi e leggende. Nyeri era considerato dagli inglesi, soprattutto per il clima favorevole, una specie di paradiso tant’è che molti funzionari “in pensione” vi avevano fissato dimora. Probabilmente non era così positiva la visione per tutti gli italiani lì costretti per anni!
Il luogo della memoria, il sacrario italiano
Sacrario di Nyeri con tomba Vicere Amedeo di Savoia Aosta Tomba del Vicere Amedeo di Savoia Aosta
sorge su una bassa collina vicino all’ospedale missionario della Consolata. Un viale di cipressi segna la strada che termina di fronte alla chiesa-ossario. La grandezza dell’edificio non è da poco, lo stile è parco ed invita al silenzio anche dal di fuori. Mi accoglie cordialmente il guardiano che azzarda qualche parola di tentennate italiano e mi sgrana un sorriso di incredulità quando mi rivolgo a lui con un inglese dall’accento africano. Mi accompagna rispettoso nella visita all’interno, sbirciando nel mio notes quando prendo appunti. Alla fine mi chiede alcune traduzioni tra cui quella del testamento di SAR Amedeo d’Aosta. Io mi dilungo a leggere le lapidi dei prigionieri caduti, militari e civili lì raccolti da tutto l’Est Africa. Noto con piacere le targhe in bronzo del Gruppo Bottego e ricordo alcuni che vi facevano parte. Dove siete andati amici del Gruppo Bottego?
Riprendo la strada scattando qualche foto e dirigendo verso Naivasha. Dopo qualche ora intravedo il lago e comincio la discesa dell’escarpment. Anche questa è una strada degli italiani ed infatti dopo le prime curve scopro la chiesetta eretta dagli italiani nel 1942.
Chiesetta sopra la valle di Naivasha Tabella metallica esterna originale 1942 Targa murata interno chiesa
E’ sempre emozionante entrare fisicamente in contatto con la storia passata e anche questa chiesa minuta ma alquanto graziosa, lascia il suo segno. L’architettura e la posizione affacciata alla vallata, ricorda molto le chiesette alpine italiane dove tutti sostano per un pensiero o un segno della croce. Anche qui incontro il personale di servizio composto in questo caso da due ragazze keniote sedute sul prato prospiciente. Loro non conoscono una parola di italiano, ma comunque chiedo se conoscono la storia dei prigionieri italiani. Purtroppo non sanno indicarmi né luoghi, né persone che possano aiutarmi nella ricerca, quindi proseguo la discesa verso la Rift Valley. La valle si apre ampia incontrando presto il lago Naivasha, attorniato da grandi estensioni di rose ben coltivate da aziende europee. Riduco ancora la velocità di crociera in cerca di particolari che potrebbero essere significativi e proseguo accanto alla linea ferroviaria per Gil Gil, Nakuru e Londiani in direzione Eldoret. Anche qui mi fermo spesso per chiedere informazioni cercando di comunicare con il mio Ki Swahili approssimativo, ma nessuno conosce la storia dei POW italiani. Rileggendo gli scritti di alcuni reduci POW stento a credere che queste cittadine siano state dei miseri agglomerati di capanne. Al mio passaggio queste cittadine si dimostrano gremite di attività e di commerci, con aree artigianali, depositi di prodotti agricoli, officine, alberghi, chiese e ospedali. A volte la cittadinanza odierna raggiunge il milione di unità!
Lasciata definitivamente la periferia di Nakuru, inizia la lunga salita per oltrepassare i rilievi che la separano da Eldoret. Raggiungo il passo a Timboroa quasi a 2.800 m. superando colonne di camion stracarichi diretti verso il confine. L’ambiente ricorda alcuni scorci delle nostri paesaggi alpestri: prati rasati con le mucche al pascolo, boschi di pini, cataste di tronchi e casupole di legno. L’aria pulita e frizzante, il cielo limpido, l’erba verdissima. Da questo momento la strada scende gradualmente sino al confine ugandese e il paesaggio torna ad essere ricco di banani, mango, piante di cassava, capre, maiali e bambini. Raggiunto Eldoret mi fermo con il preciso intento di rintracciare il sito del POW’s Camp 356, dove circa 2.000 italiani rimasero imprigionati fino al 1946. Seguendo il racconto di alcuni reduci ed in modo particolare la mappa di Giovanni Corsini, svolto in direzione Sud-Ovest verso Kisumu e dopo aver percorso circa 6 Km, lascio la macchina e proseguo a piedi. Sapevo che il campo era originariamente un ippodromo, e quindi chiedo direttamente in Ki Swahili ai residenti del “posto dove correvano i cavalli al tempo degli inglesi”. Quasi per caso trovo l’indicazione di un modesta locanda, con il disegno della testa di un cavallo, quindi entro e dopo i doverosi convenevoli africani, ripeto per l’ennesima volta chi sono e cosa vado cercando. Questa volta faccio centro e il proprietario mi indica non lontano un’azienda agricola dimostrativa del governo denominata “Show Ground”. Varco il grande cancello con un po’ di emozione e prima di cercare qualcuno a cui rivolgermi, faccio un breve perlustrazione. La zona nonostante sia coperta da erbacce è livellata perfettamente, il terreno stranamente compatto, noto inoltre una serie di vecchie ceppaie di eucalipto disposte ai lati di un grande ellisse. Lo spazio interno è molto ampio e libero, occupato solo parzialmente da alcune costruzioni trascurate e di stile moderno. Tutti le descrizioni dei reduci trovano conferma, sono sicuramente all’interno dell’Italian POW’s Camp di Eldoret! Prato ad Eldoret dove c'era il campo POW
Mi si fanno incontro alcuni funzionari che cortesemente mi spiegano quali sono le attività del centro dimostrativo, li seguo con lo sguardo ma la mia attenzione è altrove. Tutte le storie ascoltate e lette mi affollano la mente: episodi, voci rotte dall’emozione, visi, fotografie... Sono sicuro che si mi mettessi a cercare con un metal detector in quella zona troverei qualche bottone, moneta o distintivo a confermare la mia scoperta. Sessant’anni sono passati in quel pezzo di terra d’Africa e nessuno ricorda niente di quelle migliaia di italiani. I recinti di filo spinato e le baracche di tela catramata e lamiera ondulata sono fortunatamente scomparse. Al loro posto piccole e grandi aziende agricole producono verdure e fiori dalle dimensioni eccezionali e nuovi agricoltori imparano a coltivare con profitto. Ma allora perché l’amministrazione inglese aveva vietato ai prigionieri italiani di coltivare quella terra così vocata?
Imbocco l’uscita con i miei pensieri, faticando per scrollandomi di dosso un’enorme impiegata che insiste perché io sia ospite della sua casa…. Forse non è vero che gli italiani non hanno lasciato nessun buon ricordo! La macchina ora corre veloce verso il posto di frontiera dove con qualche sorriso e birra offerta ai doganieri la procedura burocratica si sveltisce come d’incanto. Vorrei che la fine del mio viaggio fosse Jinja, la cittadina ugandese che sorge affacciata al lago Vittoria, sulle sorgenti del Nilo. Negli anni ’40, Jinja era la città più attiva di tutto questo protettorato inglese, centro nevralgico delle linee stradali, ferroviarie e navali. E’ probabilmente per questo motivo che anche a Jinja venne allestito il POW’s Camp n. 360 per Italiani, definito peraltro dai prigionieri “l’inferno dei vivi”. Con le scarse notizie in mio possesso e l’intricato evolversi urbano della cittadina, mi è praticamente impossibile rintracciare l’ubicazione del campo. La zona si estende sui lievi pendii delle colline che si accavallano attorniando questo lago grande quasi quanto un mare. Il clima particolarmente caldo umido, favorisce la vegetazione a dir poco lussureggiante. Chiedendo ripetutamente ai locali trovo le caserme del presidio militare, occupate originariamente da un battaglione dei King’s African Rifles (letteralmente fucilieri africani del Re. NdA) e il cimitero ancora perfettamente mantenuto a spese del Regno Unito, con i caduti africani della seconda guerra in Africa Orientale (in Est Africa i cimiteri di guerra delle truppe britanniche sono una quarantina).
Jinja è la fine di questa mio viaggio attraverso i campi POW’s di Kenya e Uganda. Nonostante questo mia avventurosa riscoperta “della strana Africa senza sole”, non sono riuscito a toccare tutti gli ex POW’s Camp italiani dell’Est Africa. Alcuni rimangono nella vicina Tanzania, altri in Somalia (ad esempio Mandera e La Faruk), altri nell’attuale Malawi e Zimbabwe (un tempo Nyasaland e Rhodesia), altri in Kenia (ad esempio Burguret, Nanyuki, etc).
All’ombra di una veranda affacciata al lago Vittoria, trovo finalmente un momento di quiete per il ricordo e il riposo. Infatti anche la mia schiena si risveglia e mi ricorda di aver percorso in pochi giorni più di 1.400 km di strade e ferrovie sgangherate attraverso la savana, le praterie e la foresta equatoriale. Mi tornano alla memoria tutti i reduci italiani dei campi POW’s incontrati a cui devo riconoscenza e affetto per tutto il tempo, le informazioni e i ricordi che mi hanno donato. A loro avevo promesso di mantenere viva la memoria delle gesta degli italiani in Africa Orientale e quest’articolo è solo una parte di essa.
Angelo Chemello
di Angelo Chemello: