Leonardo Mastrippolito, figlio di Alfredo Mastrippolito POW 34 A (189304) Regia Marina Militare 2° C° Mecc. Matr. 28937 catturato a Capo Matapan il 28/03/1941.
Relazione sul tema:
"Zonderwater, storia del più grande campo di prigionia in cui furono rinchiusi oltre 100.000 militari italiani nella seconda Guerra Mondiale.”
Torino - 1° aprile 2017 alle ore 17,00 presso la sede ANMI viale Marinai d'Italia ponte Isabella, replicata il giorno 19 maggio 2017 presso Associazione Artiglieri sez. di Torino
P.O.W.
Vicende e storie dei prigionieri militari italiani nella Seconda Guerra Mondiale
Gli uomini là tenuti prigionieri hanno servito la Patria non meno di chi ha fatto la resistenza in casa (Sr. Tiberio figlia di P.O.W.)
1946- 2016 A mio padre Alfredo, con affetto immutato, ai miei figli per loro memoria
premessa
Nel 2016 si è svolta, presso la sede dell’Associazione Marinai d’Italia di Torino, un’interessante conferenza sulla battaglia navale avvenuta 76 anni fa, la sera del 28 marzo 1941 al traverso di capo Matapan, tra la flotta inglese e la Regia Marina Italiana.
Lo scontro fu cruento e le perdite italiane pesanti.
Perirono oltre 2000 marinai italiani, 3 incrociatori pesanti e due cacciatorpediniere furono sventrati dai devastanti proiettili sparati dalle ravvicinatissime navi inglesi le quali accusarono, per contro, la perdita di 4 uomini e di un vecchio biplano.
Il conferenziere ha descritto con dovizia di particolari l’episodio, compresi gli antefatti che portarono Supermarina a programmare l’infausta missione.
Quando la battaglia cessò e calò l’oscurità, iniziarono le sofferenze dei superstiti.
1163 marinai italiani furono raccolti la notte stessa ed il mattino seguente dalle navi di sua maestà.
Iniziava una lunga e penosa prigionia, di cui nessuno poteva conoscere la durata, mentre altri superstiti, oramai stremati dalla lunga permanenza nelle fredde acque, furono salvati alcuni giorni più tardi dalla nave ospedale italiana Gradisca.
Di seguito sono descritte le vicende dei sopravvissuti, storie di semplici soldati in balia della grande Storia che segnò e condizionò la loro vita durante la Seconda Guerra Mondiale.
Tra loro c’era mio padre Alfredo, marinaio del regio incrociatore Pola.
Nessun paese ricorda volentieri i prigionieri di guerra.
Nel centenario della Prima Guerra Mondiale vengono ricordati i 600.000 morti, ma nessuno menziona gli oltre 500.000 italiani prigionieri (100.000 uomini morirono nei campi austro-ungarici). La causa di così tanti decessi tra i prigionieri fu sicuramente attribuibile alla durezza della vita nei campi, aggravata dalle difficoltà attraversate negli ultimi tempi dall’impero a causa dell’andamento sfavorevole della guerra; inoltre alle difficoltà oggettive necessarie per mantenere migliaia di prigionieri contribuì lo scarso aiuto e la poca preoccupazione al problema da parte del governo italiano.
Il prigioniero, al pari del disertore, non era tollerato e si macchiava di un crimine verso la patria. La repressione verso tale condizione era severa e a tal proposito gli ordini di Cadorna prima, e di Diaz dopo, furono severissimi.
Disposizioni impartite dal nostro comando militare resero difficili anche l’invio di pacchi di sostentamento ai prigionieri italiani e si cercò di sfavorire il loro rientro a guerra conclusa.
Il gen. piemontese Pietro Gazzera, ministro della guerra durante il ventennio fascista, successore di Amedeo d’Aosta in Africa orientale, lui stesso prigioniero in Kenya durante la Seconda Guerra Mondiale - nominato nel 1944 Alto commissario per i prigionieri - definiva al contrario i prigionieri come “combattenti che hanno fatto il loro dovere fino al limite delle umane possibilità e solo dopo arresi”.
Le difficoltà incontrate allora sul tema dei prigionieri di guerra si proiettano similmente nella Seconda Guerra Mondiale.
Anzi, l’andamento controverso della stessa provocò nei fatti una situazione irreale: come italiani fummo prigionieri di tutti i belligeranti compresi noi stessi, se consideriamo gli italiani catturati dalla Milizia della repubblica di Salò e viceversa.
Nella Seconda Guerra Mondiale 1.300.000 militari italiani, quasi tutti giovani d’età compresa tra i 20 e i 35 anni, orientativamente metà dei combattenti sui vari fronti e un terzo degli italiani in divisa nel 1940-43, furono fatti prigionieri
Gli anglo-americani catturarono 600.000 soldati italiani.
I tedeschi dopo l’8 settembre annienteranno il Regio Esercito deportando 650.000 uomini (di cui 50.000-60.000 non sopravvissero a causa di inedia, tbc e violenza).
Anche i francesi guidati da De Gaulle reclamarono il loro bottino di guerra costituito da 40.000 militari italiani, per lo più consegnati dagli anglo-americani (periranno in 3.000), utile preda da porre sul tavolo dei vincitori.
Alla fine della guerra, nel maggio 1945, un milione e duecentomila circa prigionieri rientrarono in Italia, ma le operazione di rimpatrio dei nostri prigionieri si concluderanno solo nel 1947; qualche reduce tornò dalla Russia nel 1954.
Dell’ARMIR, l‘8° Armata del gen. Italo Gariboldi, forte di 84.830 uomini, tornarono in 10.000 (la Russia aveva avuto 5.700.000 prigionieri di cui 3.000.000 morti).
Nessuno di essi ebbe l’accoglienza che, a torto o a ragione, si aspettava.
Ma quali erano gli strumenti giuridici che tutelavano i prigionieri di guerra?
Determinante, almeno sul piano formale, fu l’esistenza di norme internazionali quali la convenzione di Ginevra che prendeva origine dall’attività dello svizzero Henri Dunant, il quale nel 1864 aveva contribuito alla nascita della Croce Rossa.
Tuttavia la convenzione in vigore nella Seconda Guerra Mondiale, risalente al 1929, non fu sottoscritta dalla Russia e fu sistematicamente violata dalla Germania.
Il rispetto dei numerosi articoli della Convenzione consentirono, quando osservati, una vita abbastanza confortevole ai prigionieri.
In particolare alcuni articoli assicuravano il rispetto del soldato in quanto tale, come gli articoli che prevedevano che i prigionieri non fossero adibiti a lavori connessi con l’attività di guerra, mentre potevano essere impiegati, regolarmente (sotto)pagati, in lavori civili o nell’agricoltura.
Altre disposizioni riguardavano la possibilità di inviare e ricevere posta, il diritto di godere di un’assistenza medica, avere a disposizione libri, ecc. .
Disposizioni essenziali che, se non rispettate, peggioravano sensibilmente le condizioni di vita dei prigionieri.
Gli Stati Uniti e la Gran Bretagna in linea di massima osservarono gli articoli contenuti nella convenzione, con l’eccezione della decisione di separare gli ufficiali dalla truppa e l’uso di stanze di punizione e isolamento utilizzate in caso di fuga o ribellione dei prigionieri.
La Germania invece, per ordine dello stesso Hitler, modificò d’arbitrio lo status dei prigionieri militari in Internati militari, privandoli di fatto della protezione della C.R.I.; i prigionieri furono così relegati lontani dalla patria, nelle stesse precarie condizioni di altri migliaia di deportati civili.
Dopo l’affondamento e la cattura i marinai italiani naufraghi di Capo Matapan furono condotti ad Alessandria d’Egitto base della flotta inglese.
Qui i prigionieri marciarono in lunghe colonne, composte anche dalle migliaia di prigionieri italiani catturati dagli inglesi sul fronte nordafricano (130.000 i prigionieri a febbraio ’41), per essere condotti nei numerosi campi egiziani di detenzione posti nelle retrovie come: Geneifa, Ismaila, ecc.) nei pressi del canale di Suez, per essere identificati ed interrogati
Erano queste poverissime e brulle zone desertiche, semplicemente delimitate da doppie matasse di rete di filo spinato, provviste sul perimetro di alte torrette ben sorvegliate e all’interno di tende necessarie al ricovero dei prigionieri parzialmente interrate per difenderle dalle raffiche del vento.
In questi campi, sorti in fretta e per questo poco attrezzati allo scopo, i prigionieri italiani conobbero la fame, la sete, il freddo e l’umiliazione, dopo la vergogna della resa.
Per fortuna erano campi di transito in quanto il massiccio numero di prigionieri era di intralcio e potenziale pericolo per gli inglesi i quali, dopo poco tempo, provvedevano al loro imbarco da porto Suez, per mete più remote e sicure nei paesi del Commonwealth - parola che per ironia delle vicende narrate significa “benessere comune” quali India, Sud Africa, Australia ecc..
In questi viaggi di trasferimento per molti prigionieri si profilò il rischio di un secondo ancora più drammatico naufragio, come accadde realmente ai prigionieri italiani trasportati a bordo di navi. Sconvolgente a questo proposito la triste vicenda della R.M.S. Nova Scotia il cui affondamento fu causato dall’U-Boat 177, sommergibile che causò l’affondamento del piroscafo.
Il suo comandante, il tedesco Robert Gysae, resosi conto che i naufraghi in mare erano in maggior parte prigionieri italiani, diffuse un radio messaggio per il soccorso, ordine censurato dal Comando flotta sommergibili germanico che gli impose di abbandonare la zona per proseguire nella missione.
Le vicende di questi sfortunati prigionieri sono ampiamente descritti in diversi libri e documenti e a Pietermaritzburg, nei pressi di Durban, dove esisteva un primo campo per i prigionieri di guerra in terra Sudafricana, sono sepolti alcuni degli italiani prigionieri non sopravvissuti a quella tragedia del mare.
Le navi cariche di prigionieri italiani, sotto la costante minaccia degli U-BOAT tedeschi in agguato nell’oceano Indiano, viaggiarono con rotta sud per oltre due settimane con sosta nel porto di Massaua in Eritrea, allo scopo di imbarcare altri sventurati commilitoni italiani catturati sul fronte delle nostre ex colonie dell’Africa Orientale.
Massaua era infatti caduta il 7 aprile ‘41 in mano inglese.
L’arrivo nel porto di Durban in Sud Africa fu una liberazione per i prigionieri ammassati nelle stive dopo giorni e giorni passati in mare in condizioni di vita proibitive per il sovraffollamento.
Una breve sosta nel già citato campo di Pietermartitzburg posto a 75 km da Durban, e poi i prigionieri furono condotti in treno a Zonderwater, località ai più sconosciuta lontana 10.000 km dall’Italia.
Per localizzare la zona con efficacia prendiamo spunto da un ritrovamento eccezionale avvenuto in Sud Africa il 26 gennaio 1905, fatto di seguito narrato.
Siamo nella miniera di proprietà di Thomas Cullinan, un imprenditore texano che ha cercato la fortuna in Sud Africa, quando il sovrintendente Frederick Wells, durante un normale controllo giornaliero, viene attratto da un luccichio che proviene da qualcosa posto a nove metri dalla superficie della miniera, probabile “pezzo di vetro” messo da qualche minatore per prendersi gioco di lui.
È invece avvenuto il ritrovamento più sensazionale nel mondo delle pietre preziose: si tratta diun diamante grezzo, trasparente e incolore di 3106 carati, del peso di oltre 600 grammi cui viene dato il nome di Cullinan, in onore del proprietario della miniera.
Il diamante grezzo fu in seguito ceduto al governo del Transvaal (Sud Africa) per la cifra di 150.000 sterline.
La guerra anglo-boera è terminata da poco, combattuta a fianco dei coloni anche da una legione volontaria italiana guidata dall’ufficiale di cavalleria, l’albese Pietro Ricchiardi e visti inon buoni rapporti fra i due governi il primo ministro del Transvaal, Louis Botha, propose di donare il diamante al re d’Inghilterra Edward VII.
Il parlamento inglese si riunisce per decidere se accettare o meno il dono, e grazie all’intervento di un giovane, ma già influente Winston Churcill, la proposta è accolta.
Cullinan il più grande diamante grezzo mai rinvenuto è consegnato al sovrano ingleseper il suo 66° genetliacoil 9 Novembre 1907.
A questo punto era giunto il momento di incaricare la persona giusta per le operazioni di taglio del Cullinan.
Viene prescelta la Asscher's Diamond Co. di Amsterdam, compagnia famosa per essersi occupata del taglio di gemme con elevate carature.
A Joseph Asscher, titolare della Ditta ed abile tagliatore incaricato, occorsero alcuni mesi solo per decidere come dividere il grezzo.
Poi finalmente si assunse la più grossa responsabilità della sua carriera: piazzò la lama sul piano naturale di sfaldatura da lui prescelto e diede una precisa martellata. La lama si spezzò e cadde per terra! Il Cullinan rimasto illeso, non si era neppure mosso!
Sostituita la lama, Mr. Asscher con sangue freddo, ripeté il gesto e colpì nuovamente con il suo martello il diamante che finalmente si ruppe nel modo in cui il tagliatore aveva ipotizzato e sperato.
Dopo aver ricevuto i complimenti della sua equipe, Mr. Asscher cascò a terra svenuto, stremato per l’emozione subita.
Il Cullinan era adesso diviso in due pietre dal peso di 1977,50 e 1040 carati e concluse le successive operazioni di taglio e sfaccettatura si ottennero 9 pietre principali, 96 pietre minori e 9,50 carati di grezzi; le 9 pietre più grandi mantennero il nome Cullinan seguito da un numero romano progressivo: il Cullinan I è anche conosciuto con il nome inglese “Star of Africa” e re Edward VII collocò questa gemma, di forma a goccia e peso di 530,20 ct, nello scettro reale tra i gioielli della corona.
Fu dunque nei pressi di questo arido altopiano posto a quota 1500 s.l.m., ricco di materie prime nel sottosuolo dove il prezioso Cullinan fu ritrovato, ma povero d’acqua (da cui trae origine la parola Zonderwater), spazzato dal vento e distante 43 km ad ovest da Pretoria, il luogo dove tra l’aprile del ‘41 e il gennaio del ’47 oltre 100 mila soldati italiani furono internati.
La vicenda umana di Zonderwater prende l’avvio dalla tendopoli sorta celermente per ospitare le migliaia di prigionieri catturati dagli inglesi provenienti, a seguito delle prime disfatte italiane del 1941, dai fronti dell’Africa settentrionale ed orientale.
La precaria tendopoli dalle caratteristiche punte a cono, pericolose per la presenza di un palo centrale metallico pericoloso richiamo per i fulmini che imperversavano durante i numerosi temporali nella zona, fu rimossa a partire dai primi mesi del 1943.
Al suo posto sorse, costruito dagli stessi prigionieri, un immenso agglomerato di semplici ma più confortevoli edifici. Si trattava di semplici costruzioni in mattoni crudi prodotti nel campo dagli stessi prigionieri, i quali utilizzavano inoltre il legname trovato in loco per il sostegno del tetto e lastre di lamiera per la copertura.
Il campo si ingrandirà sempre più; in tutto sorsero 14 blocchi ognuno dei quali in grado di accogliere 8.000 prigionieri, suddiviso in 4 campi (i campi furono in tutto 44).
A Zonderwater avrebbero potuto vivere fino a 112.000 uomini, una città delle dimensioni di Novara, ne passarono in realtà 109.000 tutti rigorosamente schedati dagli inglesi al loro ingresso.
Là, dentro la “Città dei prigionieri italiani”, lontano dalla madrepatria, dagli affetti più cari, condannati ad una detenzione di cui non conoscevano la fine, era necessario, per non soccombere all’inedia e all’avvilimento, proporre delle attività che distogliessero la mente dai pensieri più cupi.
La cultura e lo sport furono la terapia adottata per porvi rimedio.
Nacque tra i prigionieri che possedevano maggiori conoscenze nelle materie letterali, scientifiche e tecniche o abilità in attività sportive, partendo dal nulla con i poveri mezzi di fortuna a loro disposizione, promuovere iniziative di istruzione dedicate ai compagni meno capaci.
I risultati furono sorprendenti; corsi di alfabetizzazione, scuole medie e professionali, di lingue con relativi libri di testo, tennero proficuamente occupati discenti e gli stessi istruttori.
Si realizzò il giornale del campo e presero avvio attività teatrali (furono costruiti 17 teatri), corsi musicali con la nascita di bande, laboratori artigianali i cui prodotti furono esposti in una grande esposizione che richiamò persone anche da lontano.
Le attività descritte alleviarono la vita a Zonderwater dei nostri soldati sui quali però pesava pesantemente lo spettro della fame.
I pranzi somministrati ai prigionieri, almeno i primi anni, furono insufficienti e causa di diversi problemi sanitari quali debolezza, perdita di denti, diminuzione dell’acutezza visiva per mancanza di vitamine, oltre a problemi neurologici.
Solo la giovane età e forte costituzione unita all’arte dell’arrangiarsi consentì qualche miglioramento.
Le difficoltà erano tali che nel campo era attivo tra i P.O.W. il commercio di pidocchi in quanto i parassiti, se presenti nel prigioniero, dava loro l’ambito diritto oltre ad una alimentazione adeguata, al ricovero in ospedale in un letto con candide lenzuola pulite.
In realtà solo i fortunati destinati al servizio mensa e chi fu autorizzato coltivare orti all’interno dei reticolati per la produzione di derrate di ortaggi e verdure fresche migliorò sensibilmente la propria situazione alimentare.
La semplice alimentazione con cipolle era in grado di ridare la vista ai prigionieri denutriti - unico miracolo avvenuto Zonderwater in quegli anni.
In seguito le numerose attività sportive svolte nel campo ritemprarono il fisico provato dai lunghi digiuni.
Molti erano i prigionieri che prima della cattura erano impegnati professionalmente con successo nello sport, come il calciatore tesserato del Torino Vaglietti, il giocatore della Juventus Caprilli o il pugile Manca, vero idolo dei detenuti, o ancora Triccoli che dopo la guerra, grazie a quanto appreso a Zonderwater, fonderà la più promettente scuola schermistica italiana capace di sfornare talenti vincitori di competizioni mondiali.
Sorsero16 campi di calcio con piste e tribune, 80 campi di bocce, 16 campi di scherma, 6 campi da tennis, strutture per competizioni di pugilato, di lotta greco-romana, di pallacanestro e pallavolo ecc. e infine, ma non ultima, l’assistenza religiosa dispensata dai molti cappellani militari anch'essi prigionieri.
Molteplici i fattori che resero possibile tale favorevole situazione.
Innanzitutto la buona condotta nel campo fu possibile grazie al senso di responsabilità e di disciplina tra i prigionieri, che seppero auto governarsi da soli anche in assenza degli ufficiali, internati in altri campi, se non in altre nazioni.
Determinate fu inoltre presenza, a partire dal ’42, del Comandante Col. Prinsloo, sudafricano di discendenza boera, lui stesso deportato ai tempi della guerra anglo-boera. Ufficiale di notevole capacità e umanità memore del suo passato, accordò un enorme sostegno affinché i prigionieri potessero svolgere attività volte ad alleviare la prigionia.
Del resto il grande numero di prigionieri nel campo costituiva un grande pericolo, in caso di sollevazione, per i pochi soldati sudafricani adibiti alla sorveglianza, la cui maggior parte era di colore armati di semplici lance o bastoni.
L’occupazione costante dei prigionieri consentiva di distoglierli da cattivi pensieri rendendo più facile la vita al comandante Prinsloo.
Altro sostegno fu accordato da parte di numerose associazioni e dall’assistenza morale e materiale fornita dalla Croce Rossa Internazionale preposta ai controlli nei campi i cui rappresentanti furono prima di nazionalità brasiliana e poi, quando lo stesso Brasile dichiarò guerra alla Germania, di cittadinanza svizzera.
Ulteriore fattore favorevole fu, come già accennato, la presenza in Sud Africa d’un retroterra favorevole per la presenza nel Paese d’una collettività italiana numerosa e prospera.
Zonderwater era a poco più di 40 km da Pretoria e poco più lontana da Johannesburg, e anche i connazionali di Città del Capo collaborarono attivamente in seno ai Comitati d’Assistenza ai prigionieri italiani formatisi con grande sollecitudine e generosità d’interventi.
Tra gli immigrati italiani molti erano piemontesi provenienti da Avigliana.
I loro antenati erano giunti in Sud Africa a fine Ottocento attratti dalle miniere di oro e diamanti di cui era ricco il paese, attività estrattiva che necessitava di maestranze pratiche nell’uso di esplosivi, arte in cui di cui i piemontesi erano particolarmente abili considerato che, proprio ad Avigliana, era sorta la prima fabbrica di dinamite del mondo.
Importante fu inoltre l’opera svolta dalla Cassa Mutua Assistenza sorta tra gli stessi prigionieri all’interno del Campo all’insegna della più fraterna solidarietà e l’assistenza spirituale dispensata dagli innumerevoli cappellani militari anch’essi prigionieri.
La realizzazione del grande ospedale capace di 3000 letti, struttura gestita quasi esclusivamente da ufficiali medici italiani, portò l’assistenza sanitaria a livelli di grande conforto per i prigionieri e limitò il pericolo del dilagare di epidemie.
Zonderwater in breve diventò un campo modello da prendere come esempio positivo di corretta gestione di un campo di detenzione di prigionieri di guerra.
Quando nel 1949, sulla base delle tragiche esperienze vissute in guerra, fu necessario provvedere alla stesura di una nuova Convenzione per il trattamento dei prigionieri militari, l’esperienza di Zonderwater fu considerato virtuoso esempio di riferimento.
Mentre a Zonderwater le poco accoglienti tende vengono sostituite gradualmente con più confortevoli baracche di muratura, l’8 settembre del ‘43 si svolge l’attesissimo incontro di boxe tra gli idoli Giovanni Manca, di fede monarchica, e Verdinelli, di idee politiche opposte.
Ma l’attenzione per l’evento fu distolta da una notizia clamorosa proveniente dall’Italia, notizia ancora più sensazionale di quelle già annunciate a luglio quando il 25 Mussolini, a seguito dell’Ordine del giorno Grandi, era stato arrestato e il re aveva ripreso il comando delle Forze armate e nominato Badoglio a capo del Governo.
In quel torrido mese Roma è sottoposta a ripetuti bombardamenti che provocano ingenti danni e vittime, mentre gli alleati sono sbarcati in Sicilia. L’opinione pubblica è scossa e, vista la situazione che si fa sempre più drammatica, da tempo sono in atto contatti, con la mediazione della Santa Sede, tra emissari del re e gli anglo-americani per trattare la resa.
Infatti il 3 settembre è firmato segretamente l’armistizio a Cassibile dal gen. Castellano, su delega di Badoglio; Castellano che non conosce una parola d’inglese si avvale nei colloqui dell’aiuto di un piemontese, il diplomatico Franco Montanari originario di Moncalvo.
L’Armistizio corto prima e quello lungo stipulato a Malta dopo, fatalmente, dettano pesanti e puntigliose condizioni che accettiamo senza aver la possibilità, a nostra volta, di avanzare le nostre esigenze.
Viene ceduta l’ambita flotta Italiana che si consegnerà in parte a Malta e ci impegniamo a liberare, su precise pressioni inglesi prima che cadano in mano dei tedeschi, gli 85.000 prigionieri inglesi presenti sul nostro territorio.
Nessuna menzione da parte italiana viene avanzata in merito alla sorte delle migliaia di italiani prigionieri già detenuti dagli anglo-americani che vengono così lasciati al loro destino.
L'Italia dispone in patria di 80 divisioni, oltre 800.000 uomini in armi; potrebbe reagire ai tedeschi, ma esita, fatalmente, nelle decisioni.
L’armistizio è reso pubblico solo l’8 settembre.
Rompe per primo gli indugi il gen. Eisenhower il quale annuncia la resa dell’Italia seguito, trafelato e in ritardo solo un’ora dopo, da un criptico annuncio del primo ministro Badoglio che genera ulteriore confusione sia nella popolazione che nel Regio Esercito e nella lontana Zonderwater dove, quel fatale giorno, il pugile Manca ottiene una brillante vittoria.
La notizia dell’armistizio dilaga nel campo, si creano illusioni sulla fine della guerra, sull’imminente ritorno a casa, ma la realtà è diversa, terribile: la guerra continua.
Nel campo si registrarono casi di suicidio tra i prigionieri, sconfortati da una prigionia che adesso appare ancora più remota e, se a Zonderwater la situazione è critica, in Italia è peggio.
Il giorno seguente 9 settembre, puntuale con teutonico tempismo, scatta l'operazione tedesca “Achse “(Asse) che prevede l'occupazione militare del nostro paese. Da tempo il nostro ex alleato ha intuito il malessere montante nell’opinione pubblica italiana e i vertici tedeschi hanno architettato un piano in caso di defezione del nostro paese.
I nostri comandi militari sono lasciati privi di ordini precisi e 650.000 soldati vengono annientati e cadono nelle mani dei tedeschi senza colpo ferire o quasi; il loro penoso trasferimento nei duri lager tedeschi darà vita ad una epica lotta fatta di umilianti sofferenze ed atti di eroica, anche se passiva, resistenza.
Disarmati e deportati in Germania su carri bestiame, stipati in numero di cinquanta/sessanta per carro, viaggiarono per giorni e notti senza poter provvedere alle più elementari funzioni corporali, sottoposti alla pubblica e umiliante curiosità all'arrivo e a lunghi tragitti a piedi per raggiungere, dalle stazioni , i campi di concentramento.
Nei primi giorni dopo la cattura i nostri soldati furono fatti oggetto dei più efferati atti di violenza e di rappresaglia quali il forzato digiuno, in uno stato di completo abbandono, sottoposti a insolenze e offese in molti caddero sotto i colpi di arma da fuoco se colti a fuggire.
Anche chi è ancora sotto le armi non sfugge ad un tragico destino.
Sempre il 9 settembre tra le prime pagine gloriose della resistenza italiana si registra l’eroico episodio dell’affondamento della corazzata Roma la quale, salpata da La Spezia per sottrarsi alla cattura, è affondata al largo della Sardegna con perdite umane ingenti.
Tutta l’Italia è in fermento e nei numerosi campi di prigionia, presenti nel nostro paese, gli avvenimenti si susseguono.
In uno di questi a Fontanellato nella bassa parmense, all’indomani dell’annuncio dell’armistizio, il campo di prigionia diviene protagonista di un avvenimento che ancora oggi conserva un significato profondo per la popolazione del paese, ma anche per la storia nazionale .
I cancelli del campo PG49 – adibito alla reclusione di ufficiali, in gran parte britannici – furono aperti e tutti coloro che si trovarono al suo interno furono liberati senza spargimenti di sangue e riuscirono a fuggire nelle campagne circostanti dove le famiglie della zona li accolsero e aiutarono nella fuga; gli inglesi non erano più “nemici”.
Intanto gli anglo-americani sbarcano a Salerno per unirsi alle truppe che dalla Sicilia stanno risalendo lo stivale.
Il 12 settembre avviene la liberazione di Mussolini e il 13 ottobre, a più di un mese dall’armistizio dichiariamo, tardivamente, guerra ai nostri ex alleati germanici; è l'inizio della guerra civile che segnerà nel sangue e nelle deportazioni di massa, ma anche la rinascita nella lotta della nostra nazione.
E ancora sangue italiano è versato sulle isole dell'Egeo il 28 settembre in un’altra dolorosa pagina della resistenza: lo sterminio della Divisione Acqui nella strage di Cefalonia.
Nonostante il sacrificio dimostrato dai soldati italiani, e le prove di lealtà della popolazione, gli alleati non accordano fiducia al nostro paese.
Churchill sulla resa italiana dell’8 settembre ebbe a dire: “il problema di dare al governo Badoglio la posizione di alleato non rientra nei nostri programmi basterà la cobelligeranza”, e rimarcando il distacco aggiungerà in altra occasione “Il governo italiano sia libero di dichiarare guerra alla Germania, ciò non farà dell'Italia un'alleata, bensì un cobelligerante”.
Non siamo diventati alleati ma cobelligeranti.
La differenza è sostanziale; siamo cobelligeranti quindi in guerra contro un medesimo stato senza che questa lotta, contro il comune nemico germanico, risulti regolata e contemplata in accordi internazionali o patti di alleanza che mirino a stabilire le basi di una politica comune.
Questo comportò ulteriore confusione nel quadro giuridico dei prigionieri di guerra.
L’8 settembre costituì pertanto uno spartiacque non solo dal punto di vista psicologico ma anche per lo status giuridico degli italiani in cattività.
Prima di quella data, infatti, lo status dei prigionieri di guerra non fu mai messo in discussione: gli italiani erano nemici a tutti gli effetti.
Quella condizione giuridico-diplomatica, tuttavia, non venne modificata quando il Paese passò dalla parte degli alleati: gli italiani sarebbero rimasti prigionieri di guerra anche in seguito alla proclamazione della “cobelligeranza”, in sostanza fino al loro rimpatrio.
La mancata modifica dello status è spiegabile in parte con le decisioni congiunte di Gran Bretagna e USA, per cui l’Italia avrebbe dovuto rimanere un Paese pienamente sconfitto, compromesso fatalmente da un ventennio di dittatura.
Se prima dell’armistizio la cattività era stata tutto sommato sopportabile, grazie alla convinzione che - presto o tardi - la guerra sarebbe finita, il periodo dopo il settembre 1943 fu per i reclusi il più lungo e doloroso, devastante dal punto di vista psicologico, a causa della sua durata.
La mancanza da parte italiana, dopo l’armistizio, di una qualsiasi richiesta in merito al trattamento da riservare ai prigionieri italiani in mano delle truppe alleate, li condannò ad altri anni di logorante detenzione, autorizzando gli alleati a trattenerli in modo arbitrario quale forza lavoro.
Badoglio autorizzò ad «utilizzare prigionieri italiani in servizi non di combattimento connessi con lo sforzo bellico», ma tale dichiarazione non fu mai sottoscritta.
Sulle base di quell’ambigua dichiarazione gli Alleati trovarono la base giuridica dal maggio ‘44 per introdurre la “cooperazione” su base volontaria.
La scelta di introdurre la cooperazione fu una decisione unilaterale che conferma da un lato le titubanze degli alleati in merito alla completa fiducia da accordare alla già cobelligerante Italia - perplessità che permaneva ad oltre un anno dall’armistizio di Cassibile, e dall’altro la scarsa conoscenza delle effettive problematiche che tali provvedimenti causavano a danno dei P.O.W. in quanto prigionieri di guerra.
Gli italiani si divisero così in chi aderì alla cooperazione e fu autorizzato al lavoro esterno nelle “farm” nei campi o in lavori edili o d’officina, e in chi determinò di non cooperare, non perché irriducibili nostalgici, ma in quanto soldati i quali non ritenevano legittimo essere costretti a prendere ordini diretti dall’alleato, onorando il giuramento di fedeltà fatto al re.
Inoltre, in quanto militari, ogni decisione li esponeva a possibili imputazioni di tradimento e/o collaborazionismo al momento dell’agognato ritorno in patria, cosa che infatti avvenne:
ogni POW, al rientro in patria fu esaminato ed interrogato in Italia dai Comandi Militari in merito alla sua condotta in prigionia.
Infine ulteriore separazione tra i prigionieri fu quella degli irriducibili, i quali rifiutarono a priori ogni forma di cooperazione, fiduciosi comunque in un’inarrivabile, quanto improbabile, vittoria finale.
Anche sull’utilizzo di una massa così considerevole di prigionieri gli alleati ebbero le idee chiare, Churchill a proposito dei prigionieri affermò ancora:
“non possiamo permetterci che così gran numero di italiani siano affrancati da ogni disciplina e controllo liberi di scorazzare per la Gran Bretagna o Africa settentrionale. Non c'è modo di rimpatriarli senza chiedere uno sforzo eccessivo al ns naviglio e poi...... ci occorre il materiale umano..............”
Il “materiale umano” fu pagato dai prigionieri italiani.
Per i prigionieri non si trattò di una scelta semplice, sperando in un miglioramento delle condizioni materiali e maggiori libertà, la maggioranza scelse di collaborare, ma a spingerli fu soprattutto la stanchezza dopo lunghi anni di guerra e chi decise di non cooperare non ebbe vita facile per i motivi espressi.
Emblematico è il caso del campo Hereford negli Stati Uniti (Texas), dove un gruppo di ufficiali diede vita ad una vivace discussione, rifiutando la proposta degli americani di collaborare e lavorare inquadrati nell’ISU (Italian Service Unit).
Questi prigionieri, ritenuti a torto dagli americani fascisti e quindi aderenti anche all’ideologia nazista, furono sottoposti a un penoso inasprimento della detenzione dopo la mancata adesione di collaborazione con maltrattamenti, percosse e determinò l’intenzionale e ingiustificato ritardo del loro rilascio alla fine del conflitto.
Le scelte imposte dagli alleati, senza considerare le conseguenze morali e giuridiche per i prigionieri italiani, contribuirono così alla distruzione di quella fraterna “comunità di campo” che si era costruita in precedenza.
Nei campi di prigionia, le crescenti ostilità tra le opposte idee, sfociarono anche in pesanti ferimenti e risse tra le diverse fazioni resero necessario suddividere gli stessi italiani in campi separati e rinforzare la sorveglianza.
Anche a Zonderwater si registrarono atti di violenza tra le diverse fazioni e all’inizio, per timore di peggiori ritorsioni cooperarono in pochi, poi il loro numero crebbe nel tempo.
Si può asserire che solo verso la fine della guerra il loro numero fu tale da consentire agli alleati il loro impiego in modo massiccio e proficuo secondo le intenzioni.
Questo fatto spiega anche i ritardi nei rimpatri, ritardi dovuti anche ai governi dell’Italia post-fascista i quali, a causa delle difficoltà del reinserimento degli ex prigionieri e in ragione di quella che in fondo era una “buona detenzione”, non li reclamarono immediatamente.
I nostri prigionieri furono pertanto impegnati nell’agricoltura e nelle industrie alleate sia in Sudafrica che in Gran Bretagna, ancora tutto il 1945 e 1946, ricompensati con una paga pari a un decimo rispetto alla manovalanza comune, fatto che causò negli Stati Uniti i malumori dei sindacati dei lavoratori preoccupati per la sleale ingerenza nel mercato del lavoro.
Il lavoro dei prigionieri fu così un determinante sostegno all’industria e agricoltura delle nazioni alleate che avevano subito, soprattutto in Inghilterra, devastanti danni alle infrastrutture industriali causati dai bombardamenti tedeschi, aggravati dalla mancanza degli uomini inviati al fronte.
Il silenzioso lavoro dei POW italiani influì sensibilmente, ad esempio, sulla organizzazione e buona riuscita dello sbarco in Normandia del giugno del 1944.
In Germania verso la fine della guerra la situazione per gli I.M.U. diventò ancora più critica qui, al contrario degli anglo-americani che potevano contare solo sul lavoro - o meglio sulla cooperazione volontaria - dei POW, a migliaia ai prigionieri civili provenienti dalle nazioni sottoposte al giogo nazista fu imposto, coattivamente, il lavoro a favore dello sforzo bellico tedesco.
Gli accordi Hitler-Mussolini, stipulati in seguito al loro incontro avvenuto il 20 luglio 1944, peggiorarono infatti la situazione dei prigionieri italiani a causa della decisione di smilitarizzare i militari internati trattenuti in Germania.
La maggior parte dei nostri prigionieri non avevano infatti aderito all’appello del Reich né, tanto meno a quello dell’Rsi di combattere al loro fianco; questi uomini potevano quindi essere dismessi dagli Stalag per essere gestiti più comodamente e senza intralci quali normali lavoratori.
I nostri sfortunati soldati furono così condannati a pesanti e massacranti lavori forzati, senza alcuna paga, privati di qualsiasi tutela giuridica ed assistenziale, equiparati alle migliaia di lavoratori civili che già da tempo erano stati obbligati al lavoro dai tedeschi.
La storia di Zonderwater si conclude nei primi mesi del 1947, quando gli ultimi prigionieri lasciano il campo a bordo di grandi navi non più inglesi, bensì italiane, che ripercorrono a ritroso fino al porto di sbarco di Napoli, la rotta seguita anni prima dalle navi inglesi cariche di POW.
Da due anni la guerra in Europa è terminata e sul campo di Zonderwater cala l’abbandono e il silenzio.
Nel cimitero dei “Tre Archi”, posto al limite del campo, sotto una grande scritta posta sull’altare che recita così “Morti in prigionia/Vinti nella carne/Invitti nello spirito/L’Italia lontana/Vi benedice in eterno/ MCMXLIII, riposano per sempre 252 prigionieri che non faranno più ritorno”.
Nel tempo la loro memoria si attenuò: in parte perché la loro non fu una storia eroica da ricordare e da portare come esempio, come invece accadde più verosimilmente nella lotta della resistenza; in parte perché affrontare le vicende di quei prigionieri avrebbe significato recuperare il discorso della responsabilità italiana in guerra, porre a giudizio persone compromesse dal ventennio che invece, per necessità o opportunismo trovarono il modo di ricollocarsi nella neonata repubblica.
L’argomento insomma rimase un “tabù” nella memoria nazionale.
Quando gli ultimi prigionieri rientrarono in Italia, alcuni dalla Russia nel 1952, trovarono un paese molto diverso.
Avevano lasciato un Regno e Impero per cui avevano combattuto, e tornavano trovando un re in esilio in Portogallo.
Cresciuti in un paese sotto dittatura che adesso si era trasformato in Repubblica per mezzo del referendum, quello del giugno ‘46, al quale pochi prigionieri militari avevano potuto partecipare visti i forzati ritardi nel loro rimpatrio.
Invece di ricompense per i sacrifici passati, questi uomini saranno sottoposti ad interrogatori per appurare le cause della loro cattura e nessuno chiederà loro dei trattamenti subiti in prigionia o darà loro giustificazioni in merito alla lunga prigionia subita.
Ai militari rientrati nei ranghi fu pagato il periodo d’assenza, ma detratta l’indennità di vitto e alloggio di cui avevano “goduto” durante la prigionia.
Ma c’era l’Italia distrutta da ricostruire, la vita da riprendere in mano dopo la lunga assenza dalla Patria, dagli affetti dal lavoro, da tutto ciò che è vivere.
Non c’era tempo per ricordare i patimenti passati, per raccontare le vicende trascorse che comunque anche in Italia si erano vissuti.
Per i governi post-armistizio fu inutile ogni tentativo di fuoriuscire dalla condizione di paese sconfitto a cui eravamo stati relegatati. L’obiettivo mancato era di conquistarci un miglior trattamento al tavolo dei vincitori e dei trattati di pace che avrebbero ridisegnato i confini d’Italia e diffondere nel mondo l’immagine della nuova Italia debellata dal Fascismo; queste speranze vennero disattese dagli Alleati.
L’Italia continuò ad essere considerata un paese sconfitto, sebbene, diversamente dalla sorte che toccò alla Germania e al Giappone al quale dichiarammo, inutilmente, guerra il 14 luglio del 1945 in un estremo, quanto vano tentativo di riconciliarci con il nostro passato.
Il trattato di pace fu punitivo e l’ingresso nel consesso dell’ONU fu rimandato sino al 14 dicembre 1955, e solo dopo un lungo negoziato tra le due superpotenze mondiali, ma almeno, si evitò di andare incontro a ciò che avvenne al Giappone e, peggio ancora, alla Germanianazista, che perse completamente la sovranità in favore degli occupanti, che di fatto suddivisero il paese in zone d’occupazione durate lunghi anni, separando un popolo per mezzo di fittizie ma invalicabili barriere che solo nel novembre del 1989 cadranno.
La stessa cosa, fortunatamente, non avvenne in Italia, dove le strutture e le istituzioni dello stato monarchico, seppur svuotate in parte dei loro poteri statutari, permasero anche dopo la destituzione del Duce.
Nel dopoguerra molti furono i tentativi di sminuire e addirittura travisare la veridicità dei fatti avvenuti ai prigionieri di guerra Italiani.
Per tutti il famoso processo intentato per diffamazione dal sen. D’Onofrio nel 1949 ai danni di alcuni ufficiali reduci di Russia colpevoli di riferire le atrocità di cui erano stati testimoni in prigionia pubblicati sul numero unico «Russia» nell'aprile 1948, a cura dell’Associazione Nazionale Italiana Reduci di Russia (U.N.I.R.R.).
Il processo a loro intentato, si concluderà con la piena assoluzione dai fatti per gli imputati che come prova liberatoria portarono innumerevoli testi, circa trecento, attestanti la verità in merito ai maltrattamenti inflitti ai prigionieri italiani nei campi di concentramento sovietici.
Queste dolorose pagine di storia troppo presto dimenticate hanno incominciato a riemergere solo dopo il 2000, ad oltre mezzo secolo dalla fine del conflitto, grazie al Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi il quale ha onorato con la sua visita alcuni luoghi simbolo di quei travagliati momenti.
Ciampi ha avuto il merito, nello svolgimento del suo mandato, di ricompattare la memoria storica collettiva dell’Italia, leggendola integralmente, in tutta la sua complessità, senza strappi o lacune, senza esaltare alcuni aspetti a scapito di altri, forse più dolorosi ma per questo non meno significativi.
Molti sono i luoghi simbolo del sacrificio dei militari Italiani da lui visitati con ampio eco nell’opinione pubblica, luoghi per anni dimenticati se non dai sopravissuti e dalle associazioni da essi costituite: Cefalonia nell’Egeo, El Alamein in Egitto,Tambov in Russia.
«Noi che portavamo la divisa, disse a Cefalonia, avevamo giurato e volevamo mantenere fede al nostro giuramento ci trovammo all' improvviso allo sbaraglio, privi di ordini». A parte la coscienza di ognuno, gli unici riferimenti furono il senso dell' onore e l' amor patrio. «A voi alla fine del lungo travaglio causato dal colpevole abbandono (del governo Badoglio) furono poste tre alternative: combattere coi tedeschi, cedere le armi, tenerle e combattere.
Grazie all’opera di Ciampi si è osservato un nuovo interesse per i fatti narrati e nuovi studi sono stati promossi per chiarire i fatti descritti dando loro giusto rilievo nella storia del nostro paese.
E’ auspicio adesso che un’altra pagina della nostra storia di quei travagliati anni, per certi versi ancora più dolorosa, sia approfondita: quella degli internati coatti civili in Germania e in tante altre nazioni uscite vittoriose nel conflitto, quali Egitto, Sud Africa, ma anche la stessa democratica Gran Bretagna e America, che arbitrariamente costrinsero in cattività migliaia di Italiani immigrati lì da tempo o li trattò con sospetto.
Dopo la prima Guerra Mondiale si volle eternare la gloria dei caduti e del loro sacrificio.
Per volontà del governo a partire dal 1922, nei comuni italiani in gran numero, furono creati imponenti “sacrari” per accogliere le spoglie dei combattenti e realizzati “parchi della Rimembranza” in ricordo dei caduti.
A Torino per esempio, fu promossa una vera e propria scenografia urbanistica commemorativa e celebrativa con la realizzazione del grande Parco della Rimembranza sulla collina torinese, del sacrario dei caduti nella aulica chiesa della Gran Madre di Dio sulla sponda del Po ed infine, nella vasta piazza Vittorio Veneto, progettato la realizzazione di un grande monumento per eternare il ricordo di Amedeo d’Aosta, invitto comandante della terza Armata, monumento poi trasferito nella centrale piazza Castello.
Inoltre ogni comune d’Italia dedicò un monumento ai propri concittadini caduti.
Questa esperienza non fu riproposta al termine della Seconda Guerra Mondiale.
I nomi dei soldati morti nel conflitto furono semplicemente aggiunti sui monumenti esistenti, dopo i nomi dei soldati scomparsi nella Grande Guerra.
Solo gli ordinati cimiteri dei soldati alleati caduti nella campagna d’Italia nella Seconda Guerra Mondiale, come un enorme tappeto di croci bianche ci indicano i luoghi dove la guerra, più dura e cruenta, infuriò.
Uno di questi War Cemetery sorge sull’Appennino Tosco Emiliano in località Castiglione dei Pepoli. Qui, nella quiete dei boschi, riposano 502 soldati sudafricani caduti sul fronte italiano durante la terribile avanzata anglo-americana della primavera del ‘44.
Questi soldati sono accomunati con i nostri soldati che riposano a Zonderwater dal medesimo fatale e beffardo destino che solo la guerra può causare: essere sepolti gli uni nella patria d’origine degli altri.
A tutti questi eroi, senza distinzione di nazionalità, vada il nostro referente pensiero.
Leonardo Mastrippolito
Bibliografia
Fondamentale è stata la consultazione del documentato sito dell’Associazione Zonderwater Block che contiene testimonianze, fotografie e documenti e gli approfondimenti dello storico ed ufficiale degli alpini prof.Giorgio Rochat.
Tra i documentari consiglio la visione del lavoro svolto nel 1987 dal regista Massimo Sani e il film “Texas 46” inerente l’esperienza del campo di Hereford.
Utile anche la consultazione di atti e doc. presso l’ISTORETO di Torino.
Altri documenti :
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Diario di guerra e di prigionia (1939-1947), a cura di Enzo Bonzi, Casanova Editore, Faenza, 2006
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Quando ero a Zonderwater Block...: le avventure del Sergente Scrocca, nel Sud Africa: un semplice racconto, con Appendice fotografica a documentario, Renzo Valiani, Firenze : R. Valiani, 1966
-
Perché? : Zonderwater (South Africa): Campo dei prigionieri di guerra italiani, 1941-1946, compilato da Achille Armellin, s.n., dopo il 1976, (Maitland : Imperial printing company)
-
Al fronte e in prigionia: la Seconda Guerra Mondiale nel racconto dell'artigliere Guido Granello: Colle di Tenda, Sidi el Barrani, Bardia, Zonderwater, Camillo Pavan, S. Lucia di Piave (TV), CSC Edizioni, 2007,
-
Centomila prigionieri italiani in Sud Africa: il campo di Zonderwater, Lorenzo Carlesso, Venezia, Regione del Veneto, Ravenna, Longo, 2009,
-
I diavoli di Zonderwater, Carlo Annese ; prefazione di Gian Antonio Stella, Milano : Sperling & Kupfer, 2010,
-
Zonderwater: i prigionieri in Sudafrica, 1941-1947, Mario Gazzini ; prefazione di Renzo De Felice, Bonacci, Roma 1987,
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Zonderwater Block: Bollettino informativo, libera associazione ex POW reduci dai campi di concentramento in Sud Africa, Milano
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Tra i reticolati : notiziario del Zonderwater-Block, Milano, ISBNT
Dal GIORNALE DI BORDO DELL’ U-177
28 novembre 1942 Ore locali 04.12
Sul rilevamento 027 avvistate nuvole di fumo.
Il nemico si avvicina sempre più rapidamente.
La distanza è mantenibile solo a massima velocità.
La nave accosta decisamente su rotta 210°.
Si tratta di una nave passeggeri di media portata.
Velocità 14 nodi.
Ore 06.31 – Immersione per attacco subacqueo.
Con il periscopio si riconosce un forte armamento (3 cannoni, molte mitragliatrici, apparecchiatura elettrica di misurazione e direzione tiro), verniciatura militare con scarsa mimetizzazione.
Ore 7.15 – Lancio triplo, siluro I, III, IV (2,3 e 4 metri, lancio a distanza di 380 metri).
Osservato tre colpi centrati. Locale macchine, altezza plancia e zona prua.
La zona centrale si incendia immediatamente. Successivamente, a causa dell’intenso fumo, non è più possibile osservare con il periscopio.
Per mezzo dell’apparecchio acustico, si nota che la nave scorta corazzata ha spento i motori. Non appena la visibilità lo permette, si osserva che la nave è fortemente appoppata. Alzata l’antenna telescopica, non si ascoltano trasmissioni sulle onde di 600 m. si notano colpi indirizzati contro la nostra antenna che ci obbligano ad ammainarla. Sulla coperta si nota una gran confusione di gente con e senza salvagente. La parte centrale e la plancia, la sala radio, le sale passeggeri e le lance di salvataggio sono completamente avvolte dalle fiamme, a causa della forte inclinazione i cannoni non sono più operativi.
Ore 07.26 – Riemergo. Durante lo svuotamento delle zavorre la nave affonda. In mare centinaia di naufraghi alcuni con salvagente, altri su zattere e gommoni. Ho osservato che i mezzi di salvataggio non erano sufficienti. Si cerca di interrogare i naufraghi chiedendo i loro nomi, ma senza risultato in quanto gridavano tutti insieme confusamente.
Osservato che in acqua nuotavano solo italiani. Si era già creata una incontrollabile situazione di panico. Per cercare di chiarire la situazione, ci siamo avvicinati ad una singola zattera per prendere a bordo qualche naufrago, da tutte le direzione si avvicinavano naufraghi. Prendiamo a bordo due naufraghi che avevano raggiunto contemporaneamente la zattera.
Entrambi appartengono alla Marina Mercantile Italiana ed hanno dichiarato quanto segue: “ la nave affondata, si trattava della nave inglese scorta corazzata “Nova Scotia” (di 6796 tonnellate); a bordo si trovavano 1000 prigionieri civili italiani in trasferimento da Massaua a Durban via Aden. Equipaggio di 200 inglesi e 80 sudafricani, in gran parte bruciati o annegati”.
Ore 08.00 – Causa pericolo aereo e vicinanza costa ripresa navigazione con rotta 090°
Ore 11.47 – L’ufficiale TLC (telecomunicazioni) ha cercato di inviare messaggio radio al Comando Flotta Sommergibili, senza successo nonostante varie prove di chiamata.
Dalle 12.00 del 27.11 alle 12 del 28.11 percorse: 142 miglia in superficie, 16 miglia in immersione. Ore 12.08 – Prove di immersione.
Ore 12.30 – Riemergo
Ore 14.30 – Rinnovata chiamata dell’ufficiale TLC “Urgente: appena affondata, in grigliato 8325, nave scorta corazzata Nova Scotia”.
Ore 17.38 – L’ufficiale TLC riceve messaggio radio dal Comando Flotta Sommergibili: per il Comandante Gysae: “Continuare operazioni. Le attività di guerra hanno priorità. Nessun tentativo di soccorso”.
Campi di prigionia sparsi in tutto il mondo
Francia e colonie
Marocco - campi di Sejour (860), Fez (640), Djerrada (450), Marrachesc (1.240), Onjda (230), Meknes (120) (Complessivamente 3.500 internati circa).
Algeria - (complessivamente 40.410 prigionieri) nei campì di Zaghouan, Laverje, Sidi Salem, POW Camp 211-17-99, Fondouk, Pali, Mecherja, Kreider, Carnet, Bogari, Said, U.S.A. POW Camp 141/134, Suzzo-ni, Orano, Ain el Adjar, Ippodrome, Clauzel, Cape Matifou.
Tunisia - (8.700 prigionieri) Scusse, Laverie, Loubet, Kasbak, POW Camps 16-17-166-205.
Gran Bretagna – e Commonwealth
Isola di Man POW Camp 7-552-554-555 (1893 prigionieri
Australia- (14.812 prigionieri) Campi POW Gaytorn, Cowra, Hay, Janco, Muvchisoon, Myrtleford, Sandy Creeck, Marinup, Bri-ghton, Liverpool, Sidney.
Canada - (1.200 prigionieri) POW Camp and civil internai 70.
Egitto - (31.949 prigionieri) Camp POW Boulac, 305-306-307-309-310-337, Fayed, Midlle east Tantah, POW Camp 304. Eritrea - (494 internati) Camp 401 Mai Habar.
India - (114.943 prigionieri) POW Camp Ceylon, Furandaghar, Preminghar, Dehra Dun, Satara, POW Camps Group 25-26-27-28-9-10-11-12-23-14-15-16. Bombay, Quetta, Calcutta, Yol, Bangalore, Agra, Madras, Paona, Kinkes, Deolali, Simla, Ahrnedna-gar, Secunderabad, Harri Barracks 1-2-3-7. Rhodesia - (4.592 prigionieri) Fort Victoria, Inguthein, Selukwe, Salisbury, Umvuma Kenia - (924 prigionieri) POW Camps A-B-C-D-F-361.
Sud Africa - (34.279 prigionieri) POW Camps Zonderwater, Gietermaritzburg, Worce-ter, Dutoitkloof, George, Weza, Kroostad, Jesevale, Cookhouse, Standerton, Warmabatha,
U.S.A. - (11,202 prigionieri) POW Camps Ferry, Raritan, Fort Bliss, Lordsburg, Wheckler, Patrick Heinry, Fort Knonx, Fort Benjamin, Akeburg, Fit Zsimons, Hill Field Agen, Closkey Temple, Kennedy, Seagoville. Venezuela - (48 internati) Cuartel Naveran-Guigne-Valencia.
Piemonte : campo n. 5 forte di Gavi, n. 8 Pesio, n. 46 Roccolo di Busca, n. 15 Montemale, n.105 Venaria, n.43 Garessio.
Articoli tratti dalla Convenzione di Ginevra del 1929
Art.11
La razione alimentare dei prigionieri guerra sarà equivalente, per qualità e quantità, a quella delle truppe dei depositi. I prigionieri riceveranno inoltre i mezzi per prepararsi da se stessi i generi supplementari dei quali disponessero. Sarà loro fornita acqua potabile in misura sufficiente. Sarà autorizzato l'uso del tabacco. I prigionieri potranno essere adibiti alle cucine. Sono vietati provvedimenti disciplinari collettivi che incidano sul vitto.
Art. 14
I belligeranti potranno con particolari accordi concedersi reciprocamente la facoltà di trattenere nei campi medici e infermieri per la cura dei loro connazionali prigionieri.
art. 17
I belligeranti incoraggeranno quanto più sarà possibile le distrazioni intellettuali e sportive organizzate dai prigionieri di guerra.
art. 27
I belligeranti potranno impiegare come lavoratori i prigionieri validi, a seconda del grado e delle attitudini, ad eccezione degli ufficiali. I sottoufficiali potranno essere costretti al lavoro di sorveglianza, a meno che siano loro stessi a domandare d’essere adibiti a lavori remunerativi.
Art. 31
Le prestazioni d'opera dei prigionieri non avranno alcun rapporto con le operazioni belliche. E' strettamente proibito adibire i prigionieri alla fabbricazione e al trasporto di armi e munizioni come pure al trasporto di materiale destinato a unità combattenti.
Articolo 34
I prigionieri non percepiranno salario per lavori concernenti l'amministrazione e la manutenzione dei campi. Se adibiti ad altri lavori avranno diritto ad un salario da fissarsi mediante accordi tra belligeranti. Tali accordi specificheranno la parte che l'amministrazione del campo potrà trattenere, la somma spettante al prigioniero e il modo con cui questa somma sarà messa a disposizione. Alla fine della prigionia ogni prigioniero riceverà il relativo saldo. In caso di morte sarà rimesso per via diplomatica agli eredi.
Art. 36
Entro il termine massimo di una settimana dal suo arrivo al campo, come anche in caso di malattia, ogni prigioniero sarà messo in condizione di inviare alla sua famiglia una cartolina postale, per informarla della sua prigionia e del suo stato di salute. Dette cartoline postali saranno trasmesse con la maggiore rapidità possibile; e non potranno essere ritardate in alcun modo.
Articolo 42
I prigionieri avranno diritto di far conoscere, alle autorità militari nel cui potere si trovano, le loro richieste concernenti il regime di prigionia al quale sono sottoposti. Avranno parimenti il diritto di rivolgersi ai rappresentanti delle potenze protettrici per segnalare loro i punti sui quali avessero da prospettare lagnanze relative al regime vigente in prigionia. Le domande e le richieste dovranno essere trasmesse con urgenza, e non dovranno dar luogo a punizioni, anche se riconosciute infondate.
Mastrippolito Alfredo -1a fila accosciato a destra con cappello della marina