Giudici Piero POW 176530 a Zonderwater - 7° Reggimento Bersaglieri
Nato a Nibionno il 16 luglio 1921 e ivi deceduto l' 8 febbraio 2009
Catturato a Gialo ( Deserto Della Cirenaica) il 25/11/1941 - Rimpatriato il 28/12/1946
La Guerra di Piero
Piero aveva diciannove anni quando, l’11 gennaio 1941, lo chiamarono sotto le armi, sette mesi dopo che l’Italia era entrata così sventatamente e sventuratamente in guerra. Terzo Bersaglieri prima, a Milano e a Besozzo, poi un passaggio al Settimo nella Divisione Trento, mediante un trasferimento tanto improvviso quanto provvido (… il Terzo Reggimento sarebbe stato decimato sulle rive del Don nel freddo inverno russo). Piero rimase a Bolzano dal 20 giugno fino al 15 agosto ’41, compreso un mese a Cavalese. Poi, passando dalla caserma S.Chiara di Napoli, partenza per Taranto. Destinazione: fronte africano.
Il 15 settembre salparono dal porto pugliese cinque cacciatorpedinieri e tre navi, ciascuna con a bordo circa quattromila soldati. Piero era sulla nave ammiraglia, la “Vulcania”, e anche questo fu un colpo di fortuna: si vedeva già all’orizzonte la costa libica quando, la mattina del 18 settembre, le altre due navi, “Oceania” e “Neptunia”, vennero silurate dalle forze inglesi e morirono tra militari ed equipaggio 384 persone (giovani uomini, figli, padri, fratelli) nelle acque di quel Mediterraneo che il Duce si ostinava a chiamare “mare nostrum”.
Da Tripoli i superstiti marciarono verso l’interno ed il paesaggio intorno si faceva sempre più arido, desertico, inospitale, con escursioni termiche fra notte e giorno insopportabili.
Quasi quaranta giorni occorsero per arrivare al fronte, in zona di operazioni.
Era il giorno di Ognissanti. Prima tappa a Misurata, poi Sirte, El Agheila e Agedabia.
Piero si trovò suo malgrado, in prima linea, a tu per tu con il nemico, a sperimentare una fra le più spietate situazioni in cui un uomo possa mai venire a trovarsi.
“E mentre marciavi con l’anima in spalle
vedesti un uomo in fondo alla valle
che aveva il tuo stesso identico umore
ma la divisa di un altro colore.
Sparagli Piero, sparagli ora
e dopo un colpo sparagli ancora,
fino a che tu non lo vedrai esangue
cadere in terra e coprire il suo sangue”…
Questi erano gli ordini, e del resto da quasi vent’anni il fascismo si sforzava tenacemente di inculcare nei giovani il mito del superuomo, la vocazione all’eroismo.
Quanti involontari eroi avrebbe creato quella come ogni altra guerra! Uomini qualunque morti senza una ragione, spesso colpevoli di tentare un’impresa impossibile e orrenda, eppur compiendola, spinti solo da un irrinunciabile quanto mal riposto senso dell’obbedienza.
Il Battaglione giunse ad Agedabia con trentasei camion, ma i Tedeschi se ne impossessarono. Venne perciò trasportato da Autocentro e Sussistenza nei 300 chilometri di deserto che li separava da Gialo: bisognava scendere dal carro e liberarlo ogni volta che rimaneva insabbiato. (Unica consolazione al pozzo di Augila dove l’acqua era come sempre calda, ma meno nera che altrove).
Ma nel deserto della Cirenaica le forze italiane erano così sproporzionate rispetto a quelle inglesi, che in capo a poche settimane i comandanti della Divisione Trento dovettero ragionevolmente rendersi conto che, per evitare un sanguinoso quanto inutile massacro, non restava che consegnarsi al nemico. A Gialo gli Inglesi attaccarono il 20 e 21 novembre. Il 25 novembre Piero era prigioniero degli Inglesi. Rimase a Gialo fino all’8 dicembre con altri circa novecento Italiani.
Il 13 dicembre arrivò ad Alessandria d’Egitto. Dopo la disinfezione parte del Battaglione venne inviato in India, in Australia o negli USA.
Il 17 dicembre Piero trasferito a Suez, al campo 310. Qui due volte al giorno avveniva la conta generale dei prigionieri, schierati per quattro.
Il 3 aprile venne imbarcato sulla nave “Mauretania” diretta in Sud-Africa: certo non avrebbe mai immaginato che quella terra sconosciuta, situata agli antipodi, l’avrebbe ospitato per quasi cinque anni.
La vita nel campo di concentramento di Zonderwater scorreva lenta, ritmata dalla sveglia, il lavoro quotidiano, il rancio (ora decente, ora scarso e appena commestibile, in un’alternanza continua e appositamente voluta, perché i soldati italiani non dimenticassero il loro stato di prigionieri), il riposo notturno…
Alle ore nove ogni mercoledì, fino al 25 luglio ’43, i prigionieri si schieravano in file di quattro per la conta generale. Nel campo c’erano quasi centomila prigionieri.
Dopo il 25 aprile ’43 la situazione migliorò, perlomeno per quelli che come Piero avevano firmato di voler “cooperare per distruggere il comune nemico nazi-fascista”. Cominciarono a circolare più sigarette e più libri e Piero, oltre ai grandi romanzi dell’Ottocento (soprattutto russi e francesi), potè leggere anche quelle opere che in Italia erano ancora clandestine, come “Pane e vino” di Silone.
Veniva stampato anche un giornalino del campo intitolato “Tra i reticolati”: riportava notizie, articoli e caricature, nel segno di una ritrovata e più che mai sentita libertà di pensiero e di espressione.
Lontani mille miglia dalla patria, si creavano amicizie tra piemontesi e molisani, tra “polentoni e terroni”, pur nel mantenimento del modo d’essere e delle tradizioni di ciascuno. Più di un napoletano si improvvisò “ristoratore”, girando e rigirando per il campo con un pentolone di the (più acqua che the veramente) urlando per procacciarsi clienti:”Chi s’accatta u’ the?”.
Ai primi di maggio ’44 Piero si mise in lista per poter lavorare fuori, nelle vaste e fertili campagne del Transvaal, di proprietà di poche e agiate famiglie di ex coloni. Fu un’occasione davvero unica per conoscere un mondo assai diverso dal suo, per lingua, tradizione, cultura, religione (non solo i preti erano sposati ma per di più ogni famiglia aveva il proprio camposanto in un angolo del giardino!).
Lavorò nella raccolta del granoturco e per la costruzione della casa del padrone fino a Natale, poi uno dei prigionieri litigò con il datore di lavorò e furono mandati tutti al campo di Kroonstad.
Intanto arrivavano notizie dall’Italia: sembrava sempre che la guerra stesse per finire, ma quella maledetta “linea gotica” non si spostava mai!
Da un po’ di tempo Piero non riceveva lettere da casa e si chiedeva con sempre maggiore insistenza come stesse suo fratello Felice che, tornato dalla fallimentare campagna di Grecia dopo l’armistizio, si era dato alla macchia per non finire “repubblichino”.
La notizia della fine della guerra lo raggiunse all’Ospedale militare, dove si trovava per una colica renale. Piero era ricoverato in una camerata di 16 letti quando dagli altoparlanti fu trionfalmente comunicato che Milano insorta era stata liberata dai partigiani. Da tutti i 16 letti si levarono alte grida di giubilo.
Finalmente, a fine settembre, Piero ricevette corrispondenza dai suoi famigliari: gli scrivevano che la vita stava lentamente riprendendo il suo corso, che sua sorella aveva messo al mondo una bambina e che l’avevano chiamata Felicita… Le lacrime gli impedirono di leggere il resto… in quel momento. Il pensiero andò subito al fratello Felice. Seppe in seguito che la Resistenza (“patto giurato fra uomini liberi che volontari si adunarono per dignità, non per odio, decisi a riscattare la vergogna e il terrore del mondo”) aveva avuto i suoi morti anche in Brianza. Nove giovani partigiani del suo piccolo paese natio furono fucilati dai fascisti la notte del 26 aprile a Rovagnate.
Nonostante la guerra fosse finita per Piero la prospettiva di essere rimpatriato era ancora lontana. Le nazioni vinte e le nazioni vincitrici erano allo stesso modo in ginocchio, le navi erano poche e le priorità tante.
Piero fu allertato per la partenza nel giugno ’46 ma fu imbarcato solo l’8 dicembre.
Il viaggio da Durban a Napoli durò 20 giorni, in condizioni assai disagevoli, ma che importava? Si tornava finalmente a casa.
La notte di Natale, dopo la celebrazione della Santa Messa, ci furono frittelle per tutti; eppure tornando in brandina (veramente non era niente di più di una semplice amaca), Piero era pensieroso: cosa gli avrebbe riservato il futuro? Che situazione avrebbe ritrovato?
“Vivere è forse allora la pazienza instancabile di ricominciare” ha scritto qualcuno, e anche se le parole non erano precisamente queste, sicuramente questo era lo spirito dei pensieri che passavano in quel momento nel suo animo.
Il 28 dicembre, a mezzogiorno, arrivò al porto di Napoli. Viaggiò altri tre giorni in treno per raggiungere Milano. Da qui Piero con un commilitone salì sulla littorina diretta a Cassago. Portava con sé due coperte militari, qualche scellino sudafricano e una scatola di latta contenente tè. Quella bevanda, semisconosciuta nella campagna brianzola di allora, sarebbe rimasta, negli anni a venire, una sua abitudine quasi quotidiana.
Sul treno del ritorno il primo dispiacere: vedendolo, un passeggero disse agli altri: “Stiamogli alla larga, chissà quanti pioecc (pidocchi)!”.
Sei anni di assenza, per obbedienza alla nazione, per sentirsi dire ciò!
E per tutta la vita, ogni volta che dal giornale o dalla televisione Piero sentiva notizie di malgoverno, malasanità, tangenti e sperperi, era come se questo dispiacere si rinnovasse: “E’ per questa Italia che ho patito tanto?!?”…
Il 10 febbraio 1947 Piero si presentò al Distretto militare di Como: dopo 1888 giorni trascorsi lontano da casa per assolvere il dovere di soldato ricevette dal governo italiano la somma di 19.726 lire.