Testimonianza del marinaio Luigi Sitia prigioniero in Algeria con la presentazione di Enzo Bonzi.
Presentazione:
Quella che segue è la testimonianza resa nel febbraio 2012 da un marinaio italiano che sul suolo del Nordafrica, specificamente in Algeria, ebbe a trascorrere quasi un anno di prigionia, una volta terminata la guerra. Quindi ritengo possa avere una giusta collocazione in questa cartella, anche se non direttamente attinente ai fatti d’arma e di prigionia per cui il sito è nato.
Luigi Sitia, un Torinese classe 1925, appena conseguita l’abilitazione magistrale, all’indomani dell’8 settembre 1943 si arruolò volontario nell’esercito della RSI, perché gli Italiani non venissero accusati di tradire l’alleato germanico con cui erano entrati in guerra. Come marò del Battaglione Lupo della X MAS si trovò nell’inverno 1944-1945 a contrastare lungo il fiume Senio l’avanzata degli Anglo-americani (precisamente i Polacchi del generale Anders prima, i Canadesi del 1° Corpo d’Armata poi e gli Inglesi dell’Irish Regiment infine) in zona Fusignano-Alfonsine, provincia di Ravenna.
Luigi Sitia ha riportato testimonianze di questo periodo nel libro Mettiti sull’attenti, carogna!, Greco & Greco editori, Milano 1992, e più recentemente nell’articolo Tre mesi nel fango – Ricordi di un Marò della X MAS sugli argini del Senio, pubblicato dalla rivista Radio 2001 Romagna, XXX (2008), n. 1 (126°).
Dopo la resa dell’aprile 1945 con l’onore delle armi a Padova, fu condotto nel 211 POW Camp a Cap Matifou, Algeria, fino al maggio dell’anno seguente, prima di potere tornare a casa. Ecco una memoria inedita e recentissima di quel periodo, che arricchisce un settore ed una tematica poco approfonditi dalle ricerche storiche ufficiali.
Enzo Bonzi
211 P.O.W. CAMP
( In un campo di concentramento algerino, tra il 1945 e il 1946 )
29 aprile 1945: alle porte di Padova. I resti del Primo Gruppo di Combattimento della DECIMA, dopo una settimana di combattimenti e di ritirata insanguinata, dal Senio al Po e dal Po all’Adige, si arrendono. Sono circondati da reparti brittanici e non hanno quasi più munizioni, ma la resa è condizionata all’Onore delle Armi. Il Com.te Di Giacomo lo dice chiaramente all’Ufficiale del 12° Lancieri Reali Prince of Wales, venuto a trattare la resa…in caso contrario i suoi uomini sono decisi a battersi fino alla FINE. E l’onore delle armi viene concesso. Questa vicenda è ben sintetizzata nel libro “Battaglione LUPO 1943-1945” di Guido Bonvicini, di cui ricopio la pag. 269.
Nella notte tra il 28 e il 29 aprile 1945 il battaglione Lupo, insieme con tutto il 1° Gruppo di Combattimento Decima, cessava di esistere come organismo militare. Restavano i Lupi. Ancora uniti dovevano affrontare la cerimonia della sfilata e della deposizione delle armi, la prima prigionia, in una caserma, il trasferimento al campo sportivo tra le urla rintronanti di una folla di ossessi ─ « Co-pei! Co-pei! Co-pei! » ─ il viaggio. Forlì, Ancona, Afragola, Taranto: piccole vicende, alcune fughe, qualche beffa. Il « Duchess of Richmond », piroscafo canadese, li imbarcò a Taranto e li portò in Algeria. Ancora qualcosa di canadese sulla via del Lupo.
Al 211 P.O.W. Camp di Cap Matifou dall’11 giugno 1945 al 10 febbraio 1946: ogni giorno la pena di vivere un giorno in più. Rimpatrio col piroscafo « Strathaird »; sbarco in terra italiana il 13 febbraio a Taranto.
Ancora un campo tenuto dagli Inglesi, ancora filo spinato. Dopo due mesi di attesa, l’esplosione violenta di risentimenti fino allora repressi: la rivolta, il colonnello inglese prigioniero, la disciplina ripristinata dagli ufficiali italiani, l’uscita dal campo. Il 12 aprile 1946 è l’ultima data della storia in divisa.
Quelli che erano stati i ragazzi del Lupo si dispersero per tornare alle loro case, per vivere di nuovo un’attività civile. Ciascuno penò quanto dovette penare per imboccare la propria strada, ciascuno tornò infinite volte col pensiero al periodo in cui era stato soldato nel plotone tale della tale compagnia del battaglione Lupo…
…ma la storia tra quel 29 aprile 1945 e quel 12 aprile 1946 fu vissuta da ciascuno di loro in modo diverso e unanime; diverso per la diversità del sentire e di giudicare di ognuno, e unanime per la risposta di ciascuno di loro alla domanda del PERCHE’ fossero lì…son qui, perché ho amato e ancora amo l’Italia! Vale perciò la spesa di riandare con la memoria a quei giorni, così come io li ho vissuti. Ricordo la marcia dal campo della resa alla piazza di Prato della Valle, in Padova, compiuta in un silenzio assoluto. Ricordo le finestre e le persiane chiuse e i pochi cittadini incontrati muti, con le braccia penzoloni e la faccia inespressiva; ricordo anche una testa canuta, dietro i vetri di una finestra, e una mano che ci salutava, lentamente. Poi deponemmo le armi, e la canea esplose: copei tuti! Varda come i son bruti! Fummo ammassati nel cortile di una caserma; partigiani vennero in mezzo a noi per chiederci spiegazioni sull’uso delle armi da noi abbandonate; l’urlio rauco delle granate di un 88 tedesco che sparava ancora sulla città ci fece rattrappire a terra; un ufficiale inglese, accompagnato da un borghese del CLN cittadino, con i gradi di maggiore cuciti al bavero della giacca, interrogò qualcuno di noi mentre attraversava il cortile, battendosi leggermente sullo stivale col frustino…poi fummo caricati su camions mentre il popolo rumoreggiante attorno a noi chiedeva la nostra testa. E fu allora che qualcuno, dai camions, lanciò monete e banconote sulla folla…Ricordo, come ultima, bruciante umiliazione, la visione di quella gente che, smesso di inveire si buttava sul denaro, lottando tra di loro, per afferrare la preda. Ma una breve sosta nel campo sportivo riservò un’umiliazione ancor più bruciante: i soldati inglesi ci fecero scendere, raggruppare sul prato e poi scaricarono alcune casse di viveri…e fu allora che, con le lacrime agli occhi, vedemmo una buona parte di noi scagliarsi su quei viveri, per arraffarne quanto più possibile! Era ben vero che da una settimana marciavamo, sparavamo e digiunavamo, ma quello spettacolo fu una vera manna per alcuni fotografi, forse giornalisti…italiani? stranieri? Non lo seppi e non lo so, ma quella scena umiliante mi è rimasta qui, stampata nel cuore.
Dei trasferimenti da Padova a Forlì e poi ad Ancona, infine da Ancona ad Afragola non ricordo granché. Sulle colline di Ancona, ricordo, ci era stato suggerito di non avvicinarsi al reticolato, perché alcuni partigiani del luogo erano appostati e sparavano sui prigionieri. Questi trasferimenti avvenivano a mezzo autocarri, e il campo di concentramento si riduceva a una fetta di terreno, recintata da cavalli di frisia: niente tende, niente vitto…solo pioggia, fame e tanta disperazione interna, muta. Ad Afragola, invece, arrivammo col treno. A mano a mano che scendevamo verso il Sud, i “rapporti sociali” cambiavano…I commenti della popolazione civile che incontravamo mutarono dai bruti e sporchi! ai poveri figli di mamma!. Il trasferimento dalla stazione al campo di concentramento fu, per noi almeno, una vera apoteosi. Incolonnati tra due file di soldati inglesi con la baionetta in canna, marciavamo cantando le nostre canzoni, mentre ai lati della strada la gente ci salutava e le ragazze gridavano, rivolgendosi a molti di noi: A venn’accà. E, a qualcuno, anche se a prima vista pare incredibile, riuscì proprio a sgusciare tra un soldato e l’altro e a sparire al braccio di una ragazza. In fondo, noi eravamo ancora, e lo sentivamo profondamente, i Ragazzi della Decima, pronti alla sfida con l’avversario, e i soldati britannici ci accompagnavano guardando fisso in alto, cercando cioè di non vedere quel che accadeva accanto e davanti a loro. Così raggiungemmo il nostro Lager, dove saremmo stati rinchiusi per un buon mesetto. Il Lager di Afragola era un ex campo di concentramento, costruito dagli Italiani per i prigionieri Alleati. Fummo sistemati in ottimi capannoni di legno, coperti da tetto in lamiera e contenenti lettini a castello, a due piani, completi di materasso e coperte. Prima di convogliarci in queste baracche fummo fatti spogliare e spediti sotto una benefica doccia. Finalmente ripuliti, ricevemmo persino un po’ di cibo e ci sembrò di toccare il cielo col dito, dopo tanto digiunare. In quel campo erano rinchiusi numerosi soldati tedeschi, catturati durante la campagna d’Italia, ma ciò che a noi parve un miracolo divino fu rivedere, sulla soglia di una di quelle baracche, il nostro tenente Arisio, dato per morto in uno dei primi combattimenti sul Senio. In effetti, egli era rimasto sul terreno con la parte destra del corpo trapassata dalla prima sventagliata di thompson; ma venne raccolto e curato diligentemente dagli Inglesi e, non appena in grado di reggersi in piedi, fu trasferito in quel campo di concentramento. Fu un incontro denso di commozione rattenuta: il tenente Arisio abbracciò tutti quelli che poté e come poté, perché il suo braccio destro ancora penzolava inerte, e tante parole non vennero dette…a un certo punto egli si ritirò bruscamente nella baracca, dopo aver gridato: “Ciao, Ragazzi! Decima!”
La permanenza nel Campo di Afragola non durò a lungo; anche se noi ci stavamo illudendo che la nostra prigionia sarebbe finita lì, alcuni giorni dopo fummo incolonnati e, guardati a vista questa volta da soldati neri, raggiungemmo in silenzio la stazione ferroviaria. Stipati in carri bestiame come animali da portare al macello, senza viveri e senza acqua, dopo due notti e tre giorni di viaggio a singhiozzo, arrivammo a Taranto, in condizioni fisiche abbastanza provate. Va detto e ricordato che alcuni di noi, dopo aver schiodato le assi del pavimento, approfittando dei frequenti rallentamenti del treno, riuscirono a fuggire. Ma non ci fu concessa tregua…dai carri bestiame passammo alla stiva del piroscafo Duchess of Richmond e prendemmo il largo, verso destinazione a noi ignota. I soldati che ci facevano la guardia erano adesso truppa di colore, e non ci rivolgevano parola, neanche in inglese. Come vitto ricevemmo, al momento di salire a bordo, un pacchetto di gallette salate e una scatola di corned beef. La scaletta che ci avrebbe permesso di salire sul ponte era sbarrata da una robusta inferriata, dietro al quale vegliavano due occhi bianchi su sfondo nero…Qualcuno disse che ci stavano trasportando in Africa a raddrizzare le banane col culo, altri, meno pessimisti, affermavano che saremmo sbarcati a New York…qualcun altro, infine, disse che se la nave avesse incocciato una mina, di cui il Mediterraneo era ancora pieno, avremmo fatto tutti la fine del topo affogato. Con questi e altri ragionamenti sopravvivemmo a due giorni e una notte di navigazione, finché, al mattino della seconda giornata vedemmo, attraverso gli oblò, una bella cittadina, sgranata su colline verdi, e radio gavetta comunicò, poco dopo: siamo ad Algeri! Insaccate le nostre cose nello zaino, verso il tramonto, fummo scaricati all’entrata di un bel campo di concentramento: il 211 POW-Camp di Cap Matifou. All’ingresso nel campo ci attendeva una brutta sorpresa: soldati inglesi dall’aria truculenta ci perquisirono, togliendoci ogni cosa personale: orologi, anelli, soldi e documenti, persino penne e matite…e finalmente venimmo cacciati in tende da otto, così almeno mi pare di ricordare. Il giorno dopo, a gruppi di una ventina, ci presentammo davanti alla baracca-comando del Campo e ricevemmo la dotazione personale: zanzariera, due coperte, divisa inglese con stampigliato a grosse lettere P.O.W. sul dorso della giacchetta e un foglio con nome e cognome, grado, data di nascita…Di ognuno di noi essi sapevano tutto; quando feci presente che io non ero Sottocapo, ma un semplice Marò, l’ufficiale che mi consegnava il foglio personale, guardandomi bene negli occhi, disse: Noi sappiamo che tu sei un Sottocapo! Lo sapevo anch’io, perché al ritorno dal fronte mi era stata comunicata la promozione a quel grado…però la ratifica ufficiale non aveva fatto in tempo ad arrivare, e perciò io mi ritenevo sempre e soltanto un Marò. Ma essi, cioè il nemico, erano informati anche di questo dettaglio e io pensai che, probabilmente, me lo avrebbero fatto pesare. Ma ciò non avvenne. Così ebbe inizio la prigionia vera e propria, in terra africana, anche se a un tiro di schioppo dalla nostra bella Patria.
Fino al 10 febbraio 1946, quando fummo reimbarcati per tornare in Italia, le vicende di noi prigionieri della RSI furono abbastanza monotone. Il 211 POW Camp era un campo decisamente grande, installato nei dintorni del villaggio di Rouiba, e diviso in compound. Nel primo di essi vennero sistemati gli ufficiali, poi nel secondo e terzo compound furono distribuiti i prigionieri della Decima, quelli che si erano arresi alle porte di Padova, vale a dire i resti del Primo Gruppo di Combattimento DECIMA. Altri compound contenevano prigionieri italiani e tedeschi delle ultime battaglie in Africa Settentrionale e, in uno speciale compound erano alloggiati, in belle baracche di legno, i “Cooperators”, quelli cioè che avevano accettato di lavorare per gli Alleati. Ricordo che, pochi giorni dopo il nostro, vi fu l’arrivo di un notevole contingente di “vecchia naja” proveniente dalle isole del Dodecaneso. Erano parte della truppa d’occupazione italiana delle isole greche ed essendosi dichiarati immediatamente cobelligeranti dopo l’8 di settembre, ritenevano di venir rimpatriati dagli Inglesi. I quali, invece, li portarono in Algeria e li mescolarono ai cattivi repubblichini della Decima, e ai prigionieri italiani e tedeschi dell’Africa Korp. Un paio di loro finirono nella mia tenda, uno mi fece particolarmente pena: da quasi dieci anni era sotto le armi, e questa nuova lontananza da casa lo faceva soffrire veramente. Era uno di Ceva e perciò ci intendevamo bene in Piemontese. L’altro, invece, era un calabrese, che rallegrò molte nostre sere col racconto delle lotte con “u lupu”, che voleva aggredire le sue pecore, e che lui metteva in fuga a fucilate. Un momento di intensa commozione e di italianità fu quando, mi pare verso fine agosto, arrivò il Maresciallo Graziani, che venne alloggiato nel compound degli ufficiali, anche lui sotto una tenda come tutti noi. Allora tutto il campo si risvegliò e per diverse sere tenemmo alto lo spirito cantando le canzoni della Patria; poi iniziarono gli “attraversamenti” dei compounds per andare a rendere omaggio a Graziani. Non era una faccenda semplice: tra un compound e l’altro esisteva un corridoio formato da due palizzate irte di filo spinato, le sentinelle circolavano in questi corridoi a tempi assai brevi, non più di cinque/dieci minuti tra un passaggio e l’altro. Colui che voleva “attraversare” doveva attendere il passaggio della sentinella, quindi arrampicarsi sulla prima palizzata, balzare a terra nel corridoio, arrampicarsi sull’altra palizzata e poi piombare a terra e sparire tra le tende. Il tutto in due/tre minuti. Fortunatamente la sorveglianza tra un compound e l’altro non era molto severa, quindi, se si veniva colti sul fatto, non esisteva il pericolo di buscarsi una fucilata, come capitava quando si cercava di evadere dal campo, però si buscavano 28 giorni di calaboose. A questo proposito è interessante quanto segue: il delitto per cui si veniva tradotti nel compound prigione, cioè in calaboose, non aveva contorni giuridicamente definiti; cioè, uccidere il capo campo o vendere un fazzoletto agli Arabi che brulicavano attorno al campo, ricevevano la stessa pena: 28 giorni di calaboose! E in calaboose la vita non era facile: niente brandine, solo la nuda terra per dormire…tutt’al più col cartone ricavato da uno scatolone di cibo come materasso. E poi, durante tutto il giorno, bisognava trasportare grossi massi da una parte all’altra del recinto. Quando si aveva finito di trasferire il bel mucchio di sassi indicato dalla guardia, risuonava il comando go back!, e bisognava ritrasportare tutti quei massi fino al posto di prima…Qualche volta il giochetto variava: la guardia vuotava un cestone di frammenti di carta, che normalmente si sparpagliavano su un largo raggio, poi abbaiava il comando: pick up! – raccogliere! E così via, per tutto il santo giorno…qualcuno finì all’ospedale psichiatrico di Algeri.
Altro argomento poco simpatico della vita tra i reticolati algerini fu la questione vitto. Tolta la breve parentesi di Afragola, in cui ricevemmo lo stesso trattamento del soldato inglese, per il resto fu sempre e soltanto FAME. La razione in Algeria era la seguente: al mattino, un gammellino di acqua in cui era stato disciolto del latte condensato. Ci si metteva in fila, col gammellino in mano e poi, via, di corsa verso la marmitta sistemata all’ingresso del compound, dove un prigioniero attendeva col mestolo in mano. Bisognava concordare i tempi e arrivare sotto la marmitta quando il collega aveva il mestolo pieno…perché non era permesso fermarsi. Di conseguenza, qualche volta capitava di “saltare” la prima colazione. Poi, verso mezzogiorno, arrivava il rancio grosso: un magnifico pagnottone a sezione quadrata, lungo una trentina di centimetri, di pane bianco…una scatoletta di marmellata, oppure di corned beef e, alla domenica, una scatola contenente dei salciciotti a base vegetale, su cui era stampigliato “Pork and Soya”. Il tutto, però, da dividere in otto, o dieci, quanti si era nella tenda. A sera, infine, verso le 17, arrivava la minestra: acqua in cui erano disciolti cereali vari di età ignota, perché eran sempre accompagnati da piccoli bruchi cotti insieme ad essi. Noi l’avevamo battezzata: la minestra di carne…e i bruchi erano molto apprezzati! Accanto ai reticolati, poi, cresceva erba vigorosa che noi raccoglievamo e facevamo bollire, arricchendo così i nostri menus. Un momento delicato era quello della suddivisione del “rancio grosso”. L’incaricato alla suddivisione, cioè l’Affettatore, cambiava a rotazione ogni giorno e il suo operare era seguito dalle espressioni dure dei compagni di tenda; guai a sbagliare nel fare le porzioni! Il pane e il “pork and soya” venivano suddivisi su una tavoletta di legno; al termine dell’operazione si tirava a sorte il “Leccatore”, colui cioé a cui era riservato il privilegio di leccare le briciole di pane e le tracce di grasso vegetale rimaste sulla tavoletta. Ci furono anche quelli che riuscivano a digiunare per due giorni, mettendo via la propria razione giornaliera, in modo da potersi sfamare compiutamente ogni tre giorni. Non bisogna però credere che la nostra vita fosse sempre così ignobile. Ognuno aveva ricevuto un ricco equipaggiamento che, come già detto, comprendeva una zanzariera e due belle coperte. Il clima permetteva di accontentarsi anche di una sola coperta e le zanzare mancavano. In compenso all’esterno dei reticolati era un via vai continuo di Arabi che chiedevano coperte e vestiario; in cambio offrivano sigarette, datteri, pane e denaro. Però, tra noi e loro si rizzavano i reticolati con in mezzo le sentinelle inglesi, che sparavano, anche. Allora divenne tutto un gioco a rimpiattino tra noi, gli Inglesi e gli Arabi: da un compound si iniziava a gettare qualcosa oltre i reticolati; gli Inglesi accorrevano e dal compound vicino partiva la raffica di coperte, zanzariere, calze e maglie di lana. Poi, dopo un momento di pausa, partivano i pacchi di datteri, sigarette e pane. Quando le sentinelle, molto incavolate, tornavano sul posto, tutto taceva ed era ormai tranquillo. Allora i nostri ospitanti cambiarono politica. Ogni tanto e all’improvviso: adunata, con tutto l’equipaggiamento! Quelli a cui mancava qualche capo, anche solo un calzino, finivano in calaboose, e per ventotto giorni! Cambiammo politica anche noi: invece di avvicinarci personalmente ai reticolati per effettuare lo scambio, incaricammo tipi adatti alla bisogna, uno per ogni compound. Noi consegnavamo al “commerciante” la coperta, o la maglia, o qualsiasi altro capo che ancora ci rimaneva e lui, il giorno dopo, ci consegnava i viveri che, nel frattempo, era riuscito a ottenere dagli Arabi…nel frattempo anche gli Inglesi avevano smesso in internarci in calaboose, perché là non v’era più posto. Debbo riconoscere, con un certo rincrescimento, che da parte degli Arabi non ci furono mai tentativi di fregarci, benché ne avessero tutta la possibilità; invece, da parte nostra, almeno due volte ci fu chi tentò di far fessi gli Arabi…Butta! Butta!...poi ti butterò la roba! L’Arabo buttava e il nostro farabutto se la squagliava tra le tende. Ma la cosa non finiva lì. Dopo un po’ fuori del campo si radunava un gruppo di Arabi, forniti di un mucchio di pietre, e ne seguiva un pericoloso bombardamento sulle tende, che finiva soltanto quando le sentinelle sparavano in aria, gridando agli Arabi di sgombrare. Queste brutte vicende avvennero però soltanto all’inizio dei rapporti commerciali con gli Arabi, poi, come già detto, ogni compound si organizzò attorno a un suo rappresentante e lo stesso fecero gli Arabi. In qual modo ciò sia stato possibile, non so, ma tutti questi rappresentanti fecero ritorno a casa con un bel mazzo di banconote francesi.
Nel mio compound, il B se bene ricordo, non erano presenti prigionieri sacerdoti, quindi nessun cappellano e perciò, fino al nostro ritorno in Patria, mancarono cerimonie religiose e, soprattutto, non partecipammo più alla Santa Messa. Il nostro Capo Campo, tuttavia, un sottufficiale del Comando Decima, trovò il modo per tenere alti gli spiriti: ogni sera, dopo il rancio e cioè dopo la gavetta di “minestra di carne”, ci faceva radunare sul campaccio (lo spazio libero tra le tende e i reticolati) e leggeva ad alta voce la Preghiera del Marinaio …a cui, immancabilmente, seguiva l’Inno della Decima, di cui voglio ricordare la seconda strofa:
Navi d’Italia che ci foste tolte
Non in battaglia ma col tradimento,
nostri fratelli prigionieri o morti,
noi vi facciamo questo giuramento.
Noi vi giuriamo che ritorneremo,
là dove Iddio volle il Tricolore;
noi vi giuriamo che combatteremo,
fin quando avremo pace con onore!
Ho posto in risalto due versetti, perché contengono la nostra Fede, il perché del nostro Volontariato. Abbiamo infatti combattuto fin quando il nemico ebbe a riconoscerci l’Onore delle Armi, perché questo sentivamo di doverlo ai “nostri fratelli prigionieri o morti”. Sono sicuro che i Morti questo nostro dovere lo hanno riconosciuto, un po’ meno i “fratelli prigionieri” in parte passati alla cooperazione con il nemico, anche se ciò volle dire aiutare i serventi degli apparecchi da bombardamento a caricare le bombe, che poi sarebbero cadute sull’Italia. Comunque, tempo permettendo ( al tramonto scattava il coprifuoco e dovevamo ritornare tutti in tenda ), cantavamo qualche altra nostra canzone. Ricordo, in particolare, per l’impressione che lasciò nel mio spirito, la Preghiera del Legionario, là dove diceva:
O Signore, fa della Tua Croce l’insegna,
che precede il labaro della mia Legione,
e salva l’Italia, l’Italia tradita!
Sempre! e nell’ora della Morte!
Così sia!
Generalmente il sole stava tramontando e l’aria era come percorsa da brividi cromatici; fuori dai reticolati alcuni arabi, in mezzo ai reticolati la sentinella inglese…ascoltavano e, anche se non capivano, credo ne rimanessero commossi. Noi lo eravamo, certamente!
Come ebbi ad accennare poco sopra, nel 211 POW Camp di Cap Matifou i repubblichini erano pochi e cioè i resti del Primo Gruppo di Combattimento della Xa Flottiglia MAS, non più di duemila persone. Il resto, e cioè quasi 8000 prigionieri, era formato dai soldati provenienti da Grecia e Peloponneso, e da quelli catturati in Nord Africa. Quindi la maggioranza era formata da soldati dell’ex Regio Esercito, che ci avevano accolti con qualche mugugno, e che chiaramente tenevano a conservare le distanze tra loro e noi. Una buona parte di loro, come già detto, aveva accettato di cooperare, ancor prima che la guerra finisse: uscivano al mattino con poca scorta, salivano su autocarri e tornavano la sera, stanchi, ma ben pasciuti. Noi, invece, ci rifiutammo in blocco di cooperare, anche dopo la fine della guerra. Allora, gli Inglesi, alla scritta P.O.W. sulla schiena aggiunsero una bella R = Recalcitrant! Però non ci furono aggiuntive punizioni o angherie di qualsiasi genere; del resto, il regime di fame a cui eravamo sottoposti era già più che sufficiente! Cessarono, inoltre, le passeggiate fuori campo che, sulle prime, gli Inglesi ci facevano fare ogni giorno, scortati da soldati con la baionetta in canna. Ciò non fu però una punizione, ma perché quelle uscite erano sempre turbate dall’ostilità dei francesi locali, che ci insultavano, tentavano di sputarci addosso e, qualche volta, tiravano sassi gridando: pfui! les Italiens! Coçons! Traitres! Noi reagivamo cantando le canzoni della Decima, il che sollevava un’ira d’Iddio, dominata con difficoltà dalla nostra scorta. Per cui, penso, la cessazione di quelle “passeggiate”, più che una punizione per il nostro recalcitrare, fu l’accettazione di una situazione di fatto insostenibile…Sarebbe certamente finita con una sparatoria e spargimento di sangue, ciò che agli Inglesi non era affatto gradito. Magari si morisse di fame, ma senza spargere sangue, ohibò! Questo fu abbastanza chiaro quando, il 28 ottobre, dal nostro campo si elevarono tutte la canzoni fasciste e in coro urlammo: Duce, Presente! Viva, Viva l’Italia! Non che fossimo tutti fascisti convinti, però sapevamo che con quell’azione avremmo causato turbamenti ai nostri ex-nemici. Il giorno dopo le cucine non funzionarono e i viveri non vennero distribuiti. Ma ormai la fame era tanta, che un giorno in più o uno in meno di digiuno, non contribuiva a modificare il nostro trend morale.
Più o meno come sinora descritto le nostre giornate passarono così, diventando sempre più insopportabili a mano a mano che le settimane e i mesi trascorrevano. Ogni tanto ci veniva concesso di scrivere una specie di lettera/busta, ma non ricevemmo mai risposta, finché non fummo riportati in Italia. Io, utilizzando i fogli della carta igienica che generosamente ci veniva fornita, scrissi il diario della mia vita militare e molti pensieri, riflessioni, che zampillavano nella mente con il lento trascorrere delle ore. Ogni tanto ci avvicinavamo ai reticolati e chiedevamo alla sentinella: Quando noi tornare a casa?...la risposta era invariabilmente: Mañana! E il “domani” arrivava, ma della partenza non se ne parlava. Così passò il Santo Natale, rallegrato da una migliore razione, comprendente persino una sbarretta di cioccolato!, e vennero i giorni bui di gennaio. Noi incominciavamo ad essere esasperati e, probabilmente, anche i tommies lo erano. Quello poi addetto al nostro compound era pure cattivello, (si diceva che suo fratello fosse caduto sul fronte italiano), ci trattava sprezzantemente e utilizzava tutte le occasioni per angariarci. Al mattino entrava nel campo con un frustino in mano e colpiva in faccia tutti quelli che incontrava, urlacchiando qualcosa come: Italiens, fok-in, bastards! E, un giorno, qualcuno dei nostri lo afferrò, lo trascinò in una tenda e lo riempì di botte…poi lo cacciò nel barile della spazzatura, che era stato svuotato poco prima. Gimmy, così lo chiamavamo, riuscì a trascinarsi fuori, corse al comando e in un battibaleno il campo venne occupato dai soliti tommies, però col fucile a baionetta innastata. E venne pure il Colonnello con la piuma, così battezzato perché portava una magnifica piuma azzurra sul berretto. Debbo riconoscere che quell’ufficiale aveva cercato di umanizzare per quanto possibile le nostre condizioni di vita, spiegando, tra l’altro, che non poteva aumentarci le razioni, perché la guerra ormai era concentrata nel pacifico, contro i Giapponesi, e loro e noi, che stavamo in Africa, non avremmo più ricevuto rifornimenti fino alla fine della guerra…poi la guerra finì anche in Asia, ma le razioni rimasero scarse. Quel giorno il Colonnello era visibilmente preoccupato e disse pure, che se non saltavano fuori gli autori del pestaggio, avrebbe dovuto ricorrere alla decimazione del campo…Poi ascoltò a capo chino le nostre ragioni, presentate in perfetto Inglese dal capo campo e, sempre a capo chino se ne andò. Dopo un quarto d’ora la truppa d’occupazione venne ritirata e, il giorno dopo, al posto del rabbioso Gimmy il campo venne preso in consegna dal mite Lofty, uno spilungone londinese, che ci divenne subito simpatico. Tra una vicenda e l’altra arrivò finalmente il febbraio 1946 e il piroscafo Strathaird ci ritrasportò in Italia. Il nostro arrivo nel porto di Taranto fu tuttavia seguito da due vicende dolorose. La prima: scesi dalla nave con tutto l’equipaggiamento, fummo incolonnati sulla banchina e avviati verso l’uscita del porto, davanti al quale però fummo obbligati - armata manu - a buttare a terra zaino e ogni cosa che avessimo in mano. Persi così il mio diario di guerra, i pensieri della prigionia, i disegni del cambio automatico per automobile, che avevo tracciato sul retro delle etichette degli scatoloni del pork and soya, e ogni altra cosa personale raggranellata sotto la tenda algerina. La seconda sorpresa fu una bella marcia, sotto perfida tramontana che faceva vorticare palline di neve, per dodici chilometri, fin nei dintorni di Grottaglie, dove non ci attendeva la libertà, ma un nuovo campo di concentramento, il famoso e maledetto Campo S, o Campo di Sant’Andrea. I due mesi trascorsi nel Campo S furono i più duri di tutta la prigionia, anche perché ci si rendeva sempre più conto che gli ideali della nostra giovinezza erano ormai scomparsi, che una volta tornati a casa saremmo stati soltanto dei sopportati, accettati a patto che si stesse zitti…Da quanto si leggeva nei giornali, che incominciavano a penetrare nel campo e nelle lettere che giungevano da casa, nessuno accettava l’idea che noi avessimo combattuto per l’Italia, per il suo buon nome davanti alle nazioni di tutto il mondo. Semplicemente, noi eravamo degli sprovveduti o dei criminali, che avevano tentato di rimettere in piedi un fantoccio politico, il Fascismo, ormai condannato e liquidato dalla Storia…Tutto ciò, insieme alla profonda frustrazione derivante dall’essere nuovamente rinchiusi in un campo di concentramento, rendeva l’atmosfera irrespirabile. Finché, un giorno, fuori dai reticolati giunse una madre; lanciò il suo piccolo pacco che, purtroppo, cadde vicinissimo ai reticolati. Il figlio si precipitò per afferrarlo, ma la sentinella fece fuoco e il Campo prese fuoco. In pochi minuti fummo tutti fuori dalle tende e, come marea umana, ci dirigemmo nel corridoio centrale verso l’uscita…Il comandante inglese venne coraggiosamente verso di noi, per arrestarci, ma fu preso e costretto a camminare con noi verso l’uscita, in prima fila…Davanti a noi i soldati inglesi avevano piazzato una mitragliatrice, ma indugiavano nell’aprire il fuoco, perché in prima fila stava il loro comandante, ora nostro prigioniero. Provvidenzialmente, dal compound A, l’ultimo prima del portale d’ingresso, uscirono i nostri ufficiali, che si schierarono tra noi e le armi inglesi. La Medaglia d’Oro Marino Marini si fece avanti, parlò e gli animi si calmarono. L’ufficiale inglese tornò tra i suoi e noi tornammo nelle nostre tende. Il giorno successivo il Campo S incominciò a svuotarsi. Ognuno se ne andava alla chetichella; gli Inglesi se n’erano andati, sostituiti da nostri Carabinieri che ci guardavano impassibili mentre, a gruppetti, uscivamo e sparivamo verso Taranto. Con un gruppetto di amici piemontesi, raggiunsi il Comando Marina di Taranto dove fummo bene accolti e, muniti dei necessari documenti, iniziammo il viaggio verso il Piemonte…e questo non fu che l’inizio di una lotta dura, tenace, a volte spavalda, per affermare il nostro diritto alla vita, non più prigionieri del filo spinato, ma di un’Idea che non voleva tramontare e che sarebbe morta soltanto nella morte di ciascuno di noi.
Mango, febbraio 2012.
Luigi Sitia