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You are here: HomeDocumenti e videoTestimonianzeQuella strana Africa senza sole di Angelo Chemello - Viaggio tra i campi di prigionia italiani dell’East Africa 60 anni dopo

Associazione Zonderwater Block ex Pow

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15.09.2024 - ZONDERWATER BLOCK ex POW - Cerimonia al Sacrario dei Caduti nel cimitero Monumentale Vantiniano di Brescia.  Video N° 1 

15.09.2024 - ZONDERWATER BLOCK ex POW - Cerimonia al Sacrario dei Caduti nel cimitero Monumentale Vantiniano di Brescia. Video N° 2                  

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Testimonianze di tre Reduci di guerra di Isola del Cantone, raccolte da Sergio Pedemonte nel libro "Verso casa: cronache di soldati isolesi"

 

Dal libro di Sergio Pedemonte "Verso casa. Cronache di soldati isolesi"

Testimonianze di tre Reduci di guerra di Isola del Cantone (GE)

Sergio Pedemonte - Verso Casa

Angelo Cabella, marinaio furiere

Gian Riccardo Boccazzi, marinaio marconista

Mario Re, caporale di sanità in fanteria

Precedentemente all'8 settembre molti isolesi furono catturati dagli inglesi e inviati in campi di concentramento di mezzo mondo: Angelo Cabella, marinaio furiere catturato a Massaua, va addirittura in Sud Africa al Zonderwater Camp e da lì in Inghilterra. Durante una marcia di trasferimento nel deserto, una scheggia di shrapnel che si era conficcata in una scarpa («scarpe buone, da sbarco» ricorda), gli provoca un'infezione. Un boero lo carica sulla jeep e lo porta al campo di Otumlo salvandogli la vita: «In seguito l'ho cercato per ringraziarlo, avrebbe potuto lasciarmi morire come tanti altri, ma non l'ho mai più rivisto».

Al Zonderwater Camp, tra migliaia di prigionieri, qualcuno riesce a costruire una radio con cui sentire le notizie dal mondo. Gli inglesi se ne accorgono e mettono in atto tutti i mezzi per scoprire l'apparecchio: minaccie, lusinghe, punizioni, perquisizioni non portano a niente. Vengono addirittura smantellate le tende e con lunghi bastoni ispezionato tutto il terreno sabbioso per cercare di trovare l'eventuale nascondiglio. Niente da fare. Il comandante inglese, esasperato, fa delle concessioni agli italiani purché rivelino il mistero: la radio, costruita con mezzi veramente primitivi, ma perfettamente funzionante, ermeticamente chiusa in una scatola, era nascosta nel pentolone al centro del campo, immersa nell'acqua, ed il cuoco, quando arrivavano delle guardie fingeva di accendere il fuoco...

Anche Gian Riccardo (Gianni) Boccazzi, marito di Franca Punta, marinaio marconista a Massaua, passa il periodo di prigionia al Zonderwater Camp. I figli custodiscono ancora un giornalino "Settimanale dei P.d.G; n° 33" del Natale 1942, dattiloscritto e disegnato in assoluta clandestinità all'interno della tendopoli. Gianni riuscì fortunosamente a portarlo in Italia evitando le perquisizioni degli inglesi: in esso vi sono i disegni e le vignette dei prigionieri che tentavano di scacciare la malinconia con un po' di umorismo. Se ne deduce una vita di campo attiva, tesa a migliorare non solo materialmente le esigenze dei prigionieri. Si crea così una biblioteca, un complesso corale che non poteva non chiamarsi V.E.R.D.I., una società sportiva "Sorci Verdi" che pubblica addirittura il rendiconto finanziario trimestrale. Le squadre del torneo calcistico erano Juventus, Savoia, Pro Patria, Tevere, Vittoria e Folgore. Ma la parte senz'altro più letta sarà stata quella del proibitissimo Bollettino di Guerra Italiano: nel 1942 c'era ancora la speranza di tornare presto a casa.

Nello stesso campo viene portato Mario Re , caporale di sanità in fanteria: «Abitavo a Genova, in via Balbi, quando il 10 marzo 1940 sono stato arruolato all'Ospedale Militare della Chiappella dove tutto era brutto, tetro. L'istruzione alle armi l'ho fatta a Sanremo al 90° fanteria e dopo venti giorni potevo scegliere se ritornare a Genova o andare a Roma nel battaglione olimpico: ero campione ligure di pugilato. Ho sempre fatto sport, mi sono esibito anche davanti a Mussolini, alla palestra Caccialupi alle Grazie; ero insieme a Nizzola, il padre del lottatore, alla Giacobini che era una schermitrice. Comunque ho scelto Sturla, aggregato al 42°, ma stavo in caserma solo alla domenica sera. Lavoravo addirittura dalla "Vedova Romanengo" come pasticcere. Quando ci hanno vestiti, siamo entrati in una stanza dove in terra c'erano i mucchi di pantaloni, camicie, mutande e ci hanno detto di scambiarceli finché non andavano bene: niente calze, solo pezze da piedi e come elmetto quello francese della prima guerra.

Mi ricordo che quando usciva il 42° la bandiera era avvolta in una custodia e portavamo i guanti a causa di una punizione subita dal reggimento nella prima guerra mondiale . Alfiere era Paolo Castagnino (da partigiano si chiamerà Saetta) con cui avevo fatto un campionato a Bergamo. Allo scoppio della guerra ero nervoso, arrabbiato, mi mandano a Pieve di Teco dove si forma il 211° ospedaletto da campo (O.C.). Mi imbarco sulla Sauro a Napoli che è scortata da due cacciatorpediniere, l'Aretusa e il Carabiniere, dove sono due miei futuri cognati. Sbarco a Bengasi il primo d'agosto del '40 e dopo 25 o 28 giorni sono a Tobruch. Lì bombardamenti e campi minati, in uno ci dormiamo addirittura. Pagnotte con la sabbia, dissenteria ma anche giri in quei posti che avevamo visto solo al cinema: scopro che gli arabi vestono in lana d'estate e seta d'inverno. Niente palme e un deserto che ti mangia le scarpe. A Derna, che è la Venezia libica, bellissima, poi a Bardia fino ad ottobre. L'O.C. era di 6 ufficiali, 2 sottufficiali e 43 soldati, io ero in cucina. Siamo arrivati a Sidi El Barrani ai primi di novembre con i nostri otto camion Ro-Ro. Purtroppo per un errore siamo finiti in prima linea, venti chilometri più avanti di dove dovevamo essere, così ci catturano gli australiani l'11 dicembre. I loro carri armati non si sentivano, avevano i cingoli con il caucciù. Tre giorni prima ci portarono 19 nostri carristi tutti colpiti alle gambe o comunque a metà corpo: poveri ragazzi! La prima sera da prigioniero ero a un chilometro dal campo, niente bere, guardie ubriache che picchiavano con il calcio del fucile, aerei nostri che passavano sopra e noi eravamo in un deposito di munizioni. All'indomani ci portano a Marsa Matruh e ci imbarcano sulla Star of Egypt fino ad Alessandria. Ho assaggiato i primi crackers e corned beef . Durante il viaggio ci prende una tempesta e vomitiamo dove ci capita; gli arabi erano nelle stive coricati a cantare nenie. Al campo Mustafà siamo alloggiati in stalle. Gli egiziani ci gridavano: "Mussolini, maccaronì". In sette giorni non ho mai mangiato perché davano una scatola grossa di corned beef e due filoni di pane di riso ogni 24 uomini. Ho solo ricevuto da un altoatesino un pezzo di carne dura che mi ha provocato il singhiozzo per tutto il giorno. Siamo stati a Helwan, vicino al Cairo ed alle piramidi, per sei mesi, poi Suez. I primi tre mesi le razioni di rancio erano scarsissime e noi tutti imprecavamo: ma non era colpa degli inglesi (questo l'ho saputo dopo), poiché per i tanti prigionieri non c'era cibo a sufficienza. Nei campi di Suez eravamo comandati dai commandos inglesi che ci privavano dell'acqua maltrattandoci. Sulla New Amsterdam, nave passeggeri da 42.000 tonnellate, in 8 giorni arriviamo a Durban in Sud Africa, con scalo a Aden e Mombasa: una crociera! Infine al Zonderwater Camp, il campo prigionieri più grande del mondo, nel cuore del Transvaal a circa 1.000 km da Durban, costantemente 126 mila, 136 mila uomini. Qui rispettavano la convenzione di Ginevra, era d'agosto, in pieno inverno australe a 2.000 metri d'altezza e ci vestono bene: calze di lana, doppi maglioni, t-shirt di lana, quattro lamette da barba autoaffilanti (due le porterò addirittura a casa). Nel minestrone mettevano il granoturco, però non mangiamo male. Mi mandano a lavorare in un hotel e imparo l'inglese. Poi torno al campo alla mensa ufficiali del quartier generale. Parto da Durban con la nave indiana Malaya nel gennaio '46 e sbarco a Suez. Sono a Napoli il 6 marzo 1946: avevo tenuto 50 franchi per fare un pranzo e mi devo accontentare di tre fichi secchi. Nei negozi vedo scarpe esposte ed il prezzo con molti zeri, penso: "I l'en scemmi" . Lo spettacolo dell'Italia distrutta, della popolazione che mendicava, rubava, delle ragazzine che si prostituivano, mi metteva rabbia, malinconia. A Principe arrivo il 10 marzo: sei anni esatti, la mia giovinezza, mi si stringe il cuore. Il primo che vedo è mio padre: riconosco il suo passo mentre scende le scale. Con lui avevo un ottimo rapporto. La nostra casa era stata bombardata, adesso abitavamo un po' più avanti. Li ritrovo tutti, meno male».

 

 

 

 

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